Santi & Sposi
OTTOBRE
Sommario
Beato Giovanni Robinson Padre di famiglia, sacerdote, martire
Beati Luigi, Lucia, Andrea e Francesco Yakisci Martiri
San Gerino Martire venerato a St-Vivant
San Dionigi l'Areopagita Discepolo di S. Paolo
Santa Damaride Moglie di San Dionigi l’Areopagita
San Crispo Discepolo di san Paolo
Beato Bartolo Longo Laico fondatore
Beati Giovanni e Tecla Hashimoto, sposi, e figli Martiri giapponesi
Santi Andronico e Atanasia Sposi
Sant'Abramo Patriarca d'Israele
Beato Galeotto Roberto Malatesta Confessore
Sant’Edwin Re di Northumbria e martire.
Beato Romano (Roman) Lysko Sacerdote e martire
Sant'Edvige Religiosa e Duchessa di Slesia e di Polonia
Santi Catervio, Severina (sposi) e il figlio Basso Martiri
Beata Tarsila Cordoba Belda Vedova, martire
Sant'Aquilino di Evreux Vescovo
Beato Carlo I d’Asburgo Imperatore e re.
Santa Celina Madre di S. Remigio
San Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) Papa
Sant'Esclaramunda Regina di Maiorca, mercedaria
Beata Lucia Bartolini Rucellai Monaca
San Severino Manlio Boezio Filosofo e martire
Beata Caterina di Bosnia Regina, terziaria francescana
Santi Areta e Ruma, sposi, e 340 compagni Martiri di Nagran
Sante Petronilla e Ponzia Badesse premostratensi
San Crisanto e Santa Daria Martiri di Roma
Santa Canna Moglie di San Sadwrn
Beata Maria Teresa Ferragud Roig e 4 figlie suore Martiri
Beato Ludovico di Arnstein Premostratense
Santi Mauro e Beneria Sposi e martiri
Beata Celina Chludzinska Borzecka Vedova, fondatrice
San Namazio di Clermont Vescovo
Beato Salvatore Damiano (Salvador Damian) Enguix Garès Martire
Sant'Alfonso Rodriguez Vedovo, Religioso gesuita
Ferrensby, Inghilterra, ? – Ipswich, Inghilterra, 1° ottobre 1588
Non deve destare sorpresa il beato oggi festeggiato, in quanto la Chiesa cattolica nei riti orientali conserva ancora oggi il presbiterio uxorato. Come santo è venerato il sacerdote Montano insieme a sua moglie Massima ed è tuttora in corso il processo di beatificazione del sacerdote della Chiesa greco-cattolica ucraina Anatolii Hurhula e di sua moglie Irina Durbak, vittime del regime sovietico. Il martirio di John Robinson si colloca invece nel contesto delle persecuzioni anticattoliche suscitate in Inghilterra dalla nascita della Chiesa Anglicana e fomentate dagli stessi sovrani inglesi, interessati a salvaguardare l’unità religiosa della nazione. Già padre di famiglia, rimasto vedovo ricevette l’ordinazione presbiterale in età ormai assai avanzata. Ciò causò la persecuzione nei suoi confronti e la sua esecuzione. Fu beatificato nel 1929 insieme a numerose altre vittime della medesima persecuzione.
Martirologio Romano: A Ipswich sempre in Inghilterra, beato Giovanni Robinson, sacerdote e martire, che, padre di famiglia, dopo essere rimasto vedovo, a causa del sacerdozio ricevuto in avanzata età ricevette la corona del martirio.
Brabant, Liegi, Belgio, 589 - Gand, 1° ottobre 659
Di Bavone (in fiammingo Baafs) esistono quattro «Vite» in gran parte leggendarie. Sarebbe morto prima del 659. Nobile di alto rango, sposò la figlia del conte merovingio Adilone. Rimasto vedovo, seguì sant'Amando che stava evangelizzando le pagane Fiandre. Distribuì le sue terre ai poveri ed entrò nel monastero benedettino di Gand, che prese poi il suo nome. Fattosi missionario con Amando, tornò in seguito a Gand e visse gli ultimi tre anni da eremita nel cavo di un grosso albero. Sue reliquie sono nella cattedrale di Gand e nell'abbazia di Nelse-la-Reposte. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Gand nelle Fiandre, nell’odierno Belgio, san Bavone, monaco, che fu discepolo di sant’Amando; abbandonato il mondo, distribuì i suoi beni ai poveri e si ritirò nel monastero fondato in questo luogo.
Di questo santo fiammingo esistono quattro ‘Vite’ in buona parte leggendarie, come del resto la maggioranza delle vite dei santi dei primi secoli; la più antica che parla di Bavone (in fiammingo Baafs), è stata scritta probabilmente al tempo di Eginardo abate († 844), due secoli dopo la morte di Bavone, che si suppone avvenuta un 1° ottobre prima del 659; essa fu posta in versi intorno al 980.
Bavone nacque in una famiglia di alto rango sociale e sposò la figlia del conte merovingio Adilone ed ebbe una figlia di nome Agletrude.
La giovane moglie morì, non si sa come e Bavone colpito dalla disgrazia, interruppe la sua vita dissoluta e cadde in preda ad una crisi morale, che fu il punto di partenza della sua conversione. Si recò da s. Amando che stava predicando alle popolazioni ancora pagane della regione di Gand e per suo consiglio distribuì ai poveri le sue terre di Hesbaye, dove era nato ed entrò nel monastero di Ganda come religioso, monastero appena fondato da s. Amando e che in seguito si chiamerà ‘S. Bavone di Gand’.
Divenne discepolo del santo missionario e lo seguì nelle sue peregrinazioni apostoliche nelle Fiandre; dopo un certo tempo ritornò a Ganda, dove fattosi costruire una piccola cella nel cavo di un grosso albero, condusse vita eremitica ed ascetica per tre anni.
Ma le privazioni ed i sacrifici lo indebolirono rapidamente, morendo verso il 659; il suo corpo fu sepolto nel monastero di Ganda. Allo stato attuale, le sue reliquie riposerebbero in parte nella cattedrale di Gand e in parte nell’abbazia benedettina di Nesle-la-Reposte, località dove si erano rifugiati i monaci fuggiti da Ganda, per sottrarsi alle invasioni normanne, verso l’882-83.
Autore: Antonio Borrelli
+ Nagasaki, Giappone, 2 ottobre 1622
I beati coniugi Luigi e Lucia Yakichi ed i loro figli Andrea e Francesco, famiglia della diocesi di Funai, patirono la morte per Cristo in Giappone, loro patria. I due fanciulli furono decapitati assieme alla madre dinanzi al padre, e questi venne infine bruciato vivo. Ciò avvenne il 2 ottobre 1622 a Nagasaki, città giapponese della quale erano nativi. I due figli erano nati rispettivamente nel 1615 e nel 1619, mentre dei genitori non si conoscono le date. Il sommo pontefice Beato Pio IX beatificò questa intera famiglia il 7 maggio 1867, insieme con un gruppo complessivo di ben 205 martiri in terra giapponese, tra cui altre 15 coppie di sposi, tutte della medesima nazionalità.
Martirologio Romano: A Nagasaki in Giappone, beati Luigi Yakichi e Lucia, coniugi, e i loro figli Andrea e Francesco, martiri, che affrontarono la morte per Cristo: i ragazzi e la madre decapitati davanti al padre e questi, infine, arso vivo.
I beati coniugi Luigi e Lucia Yakisci ed i loro figli Andrea e Francesco, famiglia della diocesi di Funai, patirono la morte per Cristo in Giappone, loro patria. I due fanciulli furono decapitati assieme alla madre dinanzi al padre, e questi venne infine bruciato vivo. Ciò avvenne il 2 ottobre 1622 a Nagasaki, città giapponese della quale erano nativi. I due figli erano nati rispettivamente nel 1615 e nel 1619, mentre dei genitori non si conoscono le date. E’ facilmente comprensibile che purtroppo non siano state tramandate dettagliate informazioni sul loro conto, come d’altronde sin dai tempi antichi l’effusione del sangue in odio alla fede cristiana è sempre stata considerata l’espressione massima dela santità di una persona. Cerchiamo comunque di ricostruire la trama della loro vicenda di martirio.
I cristiani di Nagasaki nel 1622 avevano escogitato un piano per liberare il missionario Luigi Florès, detenuto nelle carceri di Firando. Per compiere l’ardua impresa fu incaricato proprio Luigi Yakisci, uomo assai furbo ed astuto, che con la sua piccola imbarcazione riuscì ad eludere la sorveglianza delle guardie e liberare Padre Florès. La fuga venne però subito scoperta e le guardie, dotate di mezzi più veloci, raggiunsero velocemente la precaria imbarcazione dello Yakisci e ricondussero in carcere i due fuggitivi. Luigi fu sottoposto a svariati interrogatori da parte dei magistrati, interessati a scoprire i nomi degli organizzatori del complotto. Fu sottoposto a cotanti supplizi tali da rendere il suo corpo irriconoscibile, ma tutte queste torture non giunsero a fiaccare il suo animo. Mai rivelò nulla di ciò che gli venne richiesto anche quando si prospettò la minaccia di morte anche per i suoi più stretti familiari. Tutti e quattro rifiutarono la libertà in cambio della rinuncia alla fede in Cristo ed al magistrato non restò che prenderne atto e condannare al martirio l’eroica famiglia. La moglie ed i due bambini furono decapitati dinnanzi al padre, che invece subì il supplizio del fuoco lento.
Il sommo pontefice Beato Pio IX beatificò questa intera famiglia il 7 maggio 1867, insieme con un gruppo complessivo di ben 205 martiri in terra giapponese, tra cui altre 15 coppie di sposi, tutte della medesima nazionalità. Ne consegue che sino ad oggi il Giappone è la nazione che ha donato alla Chiesa universale il maggior numero di modelli di santità vissuta nello stato coniugale.
Autore: Fabio Arduino
Emblema: Palma
Fratello di s. Leodegario, vescovo di Autun, Gerino era di lignaggio reale burgundo. Sposò la sorella del vescovo di Treviri, Basino, e ne ebbe due figli, Grimberto, che divenne conte di Parigi, e s. Lievino, futuro vescovo di Treviri.
Egli stesso, secondo un Atto di Childeberto III per l'abbazia di S. Dionigi, del 710, era conte di Parigi dopo essere stato, sembra, conte di Poitiers. Visse alla corte di Clodoveo II, di cui sottoscrisse una carta di conferma dei diritti di S. Dionigi nel 654, di Clotario III, che gli scrisse nel 658 e di Childerico II.
Si schierò con suo fratello Leodegario, capo del partito burgondo, nel conflitto contro il maestro di palazzo Ebroino. I partigiani di quest'ultimo catturarono i due fratelli, accecarono Leodegario e lapidarono Gerino senza dubbio nel 677, ai piedi della fortezza di Vergy, nella Borgogna.
Fu inumato nel luogo stesso del suo supplizio. Nel sec. XVIII si vedeva la sua tomba nella chiesa del Grand-Prieuré di St-Vivant-sous-Vergy di cui era il patrono secondario. Il suo culto associato a quello di s. Leodegario era in onore nelle abbazie di St-Maixent, di Nonaillé, di Ebreuil e di Notre Dame di Soissons, dove morí la loro madre s. Sigrada e dove era sepolto s. Leodegario. E’ venerato anche in Alsazia sotto il nome di s. Gerino. La sua festa si celebra il 2 ottobre o talvolta il 25 agosto, data della excaecatio di s. Leodegario.
Autore: Pierre Villette Fonte: Enciclopedia dei Santi
m. 95 c.
Dionigi viene citato da Luca come uno dei pochissimi ateniesi che seguirono Paolo dopo il discorso all’Areopago. Un altro Dionigi, vescovo di Corinto del II secolo, scrive che l’Areopagita fu il primo pastore di Atene. Fu, poi, confuso con l’omonimo protovescovo martire di Parigi, la cui festa cade il 9 ottobre. Sotto il nome di Pseudo-Dionigi va l’autore (forse un monaco siriaco del V-VI secolo) di celebri scritti largamente diffusi nel Medioevo: tra essi il «De coelesti Ierarchia» e il «De divinis nominibus». In essi si afferma che Dionigi avrebbe visto l’eclissi della Crocifissione e assistito alla Dormizione di Maria. Perciò furono attribuiti all’antico ateniese. (Avvenire)
Martirologio Romano: Commemorazione di san Dionigi l’Areopagita, che si convertì a Cristo annunciato da san Paolo Apostolo davanti all’Areopágo e fu costituito primo vescovo di Atene.
E' una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull'Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede. L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell'Areopago, e una certa donna, Damaris [probabilmente la moglie].
Se l'autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l'incontro tra la cultura e l'intelligenza greca e l'annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l'annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.
Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata data: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato coperto da uno pseudonimo. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un'autorità quasi apostolica. Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è l'altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po' disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero comune in un linguaggio comune. Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. Con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in sintonia con il Vangelo. Questo principio, che egli rivela nella sua settima Epistola, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.
Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire “soprapersonale”, realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorte religione filosofica, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeismo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca. Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l'uomo poteva trovare l'accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità — per loro certi riti anche superstiziosi potevano essere sufficienti — e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.
Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio – nell'armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio – e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini agli angeli e agli arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e rendono lode a Dio. Trasformava così l'immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura. Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un'esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa nostra unione con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin – un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica. Anzi la parola “mistica” acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola “sacramentale”, cioè quanto appartiene al mystèrion, al sacramento. Con lui la parola “mistica” diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell'anima verso Dio. E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra filosofia greca e cristianesimo, tra pensiero pagano e fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più “vero”; la Bibbia appare abbastanza “barbara”, semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri. Le immagini bibliche ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella loro semplicità noi troviamo, più che nei grandi concetti, il volto di Dio e ci rendiamo conto della nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Si parla così – è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo – di una “teologia negativa”. Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto che, d'altra parte, è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo Proclo, l'armonia dei cori celesti, in cui sembra che tutti dipendano da tutti, il nostro cammino verso Dio, però, rimarrebbe molto lontano da Lui, egli sottolinea che, alla fine, la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si è fatto vicino a noi in Gesù Cristo.
E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nell’interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell'Oriente sia dell'Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l'eredità così semplice e così profonda di San Francesco: Bonaventura con Dionigi ci dice alla fine, che l'amore vede più che la ragione. Dov'è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l'amore vede, l'amore è occhio e l'esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza, Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà – nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità – c'è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa tocchiamo realmente il cuore di Dio.
Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col “non”, e solo entrando in questa esperienza del “non” Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell'Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.
Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l'essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell'incontro con Lui, nell'esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell'amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell'esperienza, dell'esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l'incontro con Dio in Cristo
Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 14.05.2008)
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Tra i pochissimi che, udito il forbito discorso tenuto da Paolo all'Aeropago di Atene, aderirono a lui, Luca nomina "Dionigi l'Aeropagita", membro cioè di quel tribunale, e pertanto appartenente all'aristocrazia ateniese, "e una donna di nome Damaris", forse Damalis; secondo una tradizione riferita da s. Giovanni Crisostomo essa sarebbe la sposa di Dionigi, ma si tratta soltanto di una supposizione senza prova alcuna.
In una lettera di Dionigi, vescovo di Corinto, contemporaneo di papa Sotero, scritta agli ateniesi prima del 175, è detto, come ci ha conservato Eusebio, che Dionigi L'Areopagita morì primo vescovo di Atene; solo una leggenda tardiva lo ha identificato con il primo vescovo di Parigi, martirizzato verso il 270. Tale identificazione troviamo nel Martirologio e nel Breviario Romano, al 9 ottobre Tuttavia nel Vetus Romanum Martyrologium, i due Dionigi sono chiaramente distinti l'uno dall'altro; al 3 ottobre, infatti, si legge: "Athenis, Dionysii Areopagitae, sub Adriano diversis tormentis passi, ut Aristides testis est in opere quod de Christiana religione composuit”; e al 9 ottobre: "Parisiis Dionysii episcopi cum sociis suis a Fescennino cum gladio animadversi" (PL, CXXIII, col. 171).
La Cronaca che porta il nome di Lucius Dexter identifica s. Dionigi di Parigi con Dionigi l'Areopagita, ma comunemente si nega l'autenticità di questo scritto. Il primo che identificò i due Dionigi fu Hilduinus, abate di S. Dionigi (m. 840), nella Vita s. Dionysii,. Sotto il nome di Dionigi l'Areopagita, vengono citati gli scritti, che probabilmente un monaco siriaco, promosso all'episcopato, compose tra il 480 e il 530 e che conobbero il più grande successo ed esercitarono un grande influsso durante tutto il Medio Evo: De coelesti hierarchia; De mystica theologia; De ecclesiastica hierarchia; De divinis nominibus, e dieci epistulae . Secondo la VII ep., Dionigi e il sofista Apollophanes avrebbero visto l'eclissi del sole nel giorno della crocifissione e secondo De divinis nominibus (III, 2) D. avrebbe assistito alla Dormitio della S.ma Vergine.
Da queste notizie leggendarie si è creduto che l'autore di questi scritti fosse Dionigi l'Areopagita, il discepolo di Paolo: il primo ad affermarlo fu il patriarca monofisita Severo di Antiochia (512-18), in una disputa con gli ortodossi a Costantinopoli, sotto Giustiniano I (533). Ma il portavoce dei cattolici, Hypatios, vescovo di Efeso, osservò che se tali scritti fossero stati di Dionigi, non sarebbero stati ignorati né da s. Cirillo, né da s. Atanasio: argomentazione, questa, che vale ancor oggi.
Autore: Francesco Spadafora Fonte: Enciclopedia dei Santi
† Uruaçu, Brasile, 3 ottobre 1645
L'evangelizzazione nel Rio Grande do Norte, nel Brasile, fu iniziata nel 1597 da missionari portoghesi. Negli anni seguenti alcuni olandesi, di confessione calvinista, crearono un clima di conflittualità che portò alla persecuzione anticattolica. Allora nel Rio Grande do Norte, c'erano due parrocchie, una a Cunhaú guidata da don Andrea de Soveral mentre a Natal viveva la comunità della Madonna della Purificazione con il suo parroco don Ambrogio Francesco Ferro. Entrambi furono vittime della persecuzione: a Cunhaú il 16 luglio 1645 fu ucciso padre Andrea de Soveral insieme a 69 fedeli. Saputolo, i cattolici di Natal cercarono di mettersi in salvo, ma fu inutile. Insieme al loro parroco, furono inviati dalle autorità olandesi ad Uruaçu, dove erano attesi da soldati e indigeni capeggiati Antonio Paraopaba. Padre Ambrogio, che morì il 3 ottobre, e i suoi parrocchiani furono torturati e uccisi. Si conoscono i nomi soltanto di 28 di loro, parroco compreso. Sono stati beatificati il 5 marzo 2000 da Giovanni Paolo II. (Avv.)
Martirologio Romano: Sulla riva del fiume Uruaçu vicino a Natal in Brasile, beati Ambrogio Francesco Ferro, sacerdote, e compagni, martiri, vittime della repressione perpetrata contro la fede cattolica.
Padre Andre Soveral, gesuita brasiliano nato nel 1572 e martirizzato il 16 luglio 1645, nella cappella della Madonna delle Candele a Cunhau, assieme ai suoi fedeli, da una truppa di soldati olandesi.
Padre Ambrosio Francisco Ferro, martirizzato il 3 ottobre 1645, assieme ai suoi parrocchiani, dopo diverse torture, da soldati olandesi e da 200 indios, comandati dal loro capo Antonio Paraopaba.
Il cristianesimo in generale e il cattolicesimo in particolare, possono annoverare nella loro esistenza millenaria, una sfilata di martiri di ogni età, sesso e condizione sociale, che per l’affermarsi nel mondo pagano della nuova religione di fratellanza, uguaglianza, pace e serenità nei cuori e nel sociale, in nome di Cristo versarono in ogni tempo il loro sangue, soffrendo indicibili dolori fisici e morali.
Se tutto questo soffrire, proveniente dai pagani o da religioni diverse dai seguaci di Cristo, alla fine si poteva mettere nel conto, prevedendo la reazione di quanti avevano interesse a non sconvolgere il loro potere sulle masse ciecamente osservanti.
Tanto più odioso è lo scatenarsi sanguinario e persecutorio, di cristiani contro altri cristiani, divisi da interpretazioni dottrinarie, predicate da riformatori sia del clero che laici, succedutasi nei secoli e che hanno portato l’unico grande albero della Chiesa di Cristo, a dividersi in tanti rami scismatici e riformati, che tanto hanno nociuto all’unità del Cristianesimo.
Il movimento riformatore dei Calvinisti, nato dalle idee teologiche e politico-religiose di Giovanni Calvino (1509-1564), fu uno di questi, che nell’intenzione di portare i laici ad una larga e diretta partecipazione alla vita ecclesiastica, costituendo comunità politico-religiose, fortemente omogenee al loro interno, grazie alla stretta dipendenza del potere politico dall’autorità religiosa, si associò in primo piano alle conquiste coloniali nel mondo, fomentando ribellioni e persecuzioni contro i cattolici già presenti in quelle terre.
E in questo panorama qui tracciato in generale, va inquadrata la vicenda del martirio dei 30 cattolici del Brasile, beatificati il 5 marzo 2000 da papa Giovanni Paolo II.
L’evangelizzazione nel Rio Grande do Norte, Stato del Nord-Est del Brasile, fu iniziata nel 1597 da missionari Gesuiti e sacerdoti diocesani, provenienti dal cattolico Portogallo; cominciando con la catechesi degli indios e con la formazione delle prime comunità cristiane.
Negli anni seguenti ci furono sbarchi di Francesi e Olandesi, intenzionati a scalzare dai luoghi colonizzati i Portoghesi; nel 1630 gli Olandesi ci riuscirono nella regione del Nord-Est, essi di religione calvinista e accompagnati dai loro pastori, determinarono nella zona fino allora pacifica, una conflittualità per cui ci fu una restrizione della libertà di culto e i cattolici furono perseguitati.
In questo contesto avvennero i due episodi del martirio dei Beati di cui parliamo; allora nel Rio Grande do Norte, c’erano soltanto due parrocchie, a Cunhaú la parrocchia della Madonna della Purificazione o delle Candele, guidata dal parroco don Andrea de Soveral e a Natal, la parrocchia della Madonna della Presentazione con parroco don Ambrogio Francesco Ferro.
Ambedue le parrocchie furono vittime della dura persecuzione religiosa calvinista; vi sono pochissime notizie riguardanti i martiri singolarmente, ma i vari scrittori del secolo XVII narrarono gli episodi dettagliatamente.
Presi dal terrore di quanto accaduto a Cunhaú, i cattolici di Natal, cercarono di mettersi in salvo rifugiandosi in alcuni improvvisati rifugi, ma fu tutto inutile.
Insieme al loro parroco don Ambrogio Francesco Ferro, furono inviati dalle autorità olandesi in un posto stabilito ad Uruaçu, dove erano attesi da soldati e da circa 200 indios comandati dal capo indigeno Antonio Paraopaba, il quale convertito al protestantesimo calvinista, aveva una vera e propria avversione verso i cattolici.
I parrocchiani e il loro sacerdote, furono seviziati in modo orribile e lasciati morire fra inumane mutilazioni, che anche il cronista dell’epoca ebbe vergogna a descrivere dettagliatamente.
Di tutti questi numerosi gruppi di fedeli martirizzati, le Autorità ecclesiastiche cercarono di conoscere i nomi, riuscendoci solo per 28 di loro. Essi sono: Don Ambrogio Francesco Ferro parroco; Antonio Vilela il giovane; Giuseppe do Porto; Francisco de Bastos; Diego Pereira; João Lostau Navarro; Antonio Vilela Cid; Estévão Machado de Miranda; Vicente de Souza Pereira; Francisco Mendes Pereira; João da Silveria; Simão Correia; Antonio Baracho; Mateus Moreira; João Martins; Manuel Rodrigues Moura; la moglie di Manuel Rodrigues; la figlia di Antonio Vilela il giovane; la figlia di Francisco Dias il giovane; 7 giovani compagni di João Martins; 2 figlie di Estévão Machado de Miranda.
Autore: Antonio Borrelli
Grecia, I secolo
Tra i pochissimi personaggi che, udito il forbito discorso tenuto da San Paolo all’Areopago di Atene, aderirono alla fede cristiana, l’evangelista Luca nomina negli Atti degli Apostoli “Dionigi l’Aeropagita”, membro cioè di quel tribunale e pertanto appartenente all’aristocrazia ateniese, “ed una donna di nome Damaris”, forse Damalis. San Dionigi è venerato quale primo vescovo di Atene al 3 ottobre. Come già avvenuto ad esempio per Zaccheo e Veronica, personaggi evangelici uniti in matrimonio dalla pietà popolare, Damaride fu considerata sposa del protovescovo ateniese, tradizione riferita anche da San Giovanni Crisostomo ma comunque priva di alcun fondamento storico. Damaride era ateniese di nascita ed anch’essa, come Dionigi, si convertì al cristianesimo in seguito alla predicazione di San Paolo. I menologi greci commemorano Santa Damaride al 4 ottobre, che non va confusa con l’omonimo corpo santo venerato presso Palo del Colle (Ba).
Autore: Fabio Arduino
Corinto, I secolo
Etimologia: Crispo = dai capelli ricci, dal latino
Crispo era un giudeo che come tanti altri in quel tempo, portava un nome romano, ed era il capo della sinagoga di Corinto, quando nel 50-51 s. Paolo iniziò il suo apostolato in quella città.
Negli Atti degli Apostoli è scritto che Crispo convinto dalle argomentazioni di Paolo, si convertì e “credette in Gesù con tutta la sua casa”; come era consuetudine, infatti i familiari ed i dipendenti seguivano la religione del capo di famiglia.
Nella I lettera ai Corinti, è riportato che Crispo fu battezzato da s. Paolo come Gaio e la famiglia di Stefanas, (I Cor. 1, 14 sg.). Data la sua posizione in seno al giudaismo, la sua conversione, ebbe certamente una grande pubblicità ed efficacia, provocando la conversione di altri correligionari.
Venne deposto dalla carica che ricopriva nella sinagoga e sostituito da Sostene (Act. 18, 17), il quale seguì poi l’esempio di Crispo suo predecessore, convertendosi al cristianesimo e diventando uno dei compagni di s. Paolo, il quale nella I lettera ai Corinti lo chiama “fratello”.
Non si hanno notizie sulla vita successiva di Crispo; una tradizione posteriore lo dice vescovo di Egina nel golfo di Saronico.
Il ‘Martirologio Romano’ lo associa nella celebrazione insieme a Gaio, al 4 ottobre e lo considera morto a Corinto.
Autore: Antonio Borrelli
Latiano, Brindisi, 10 Febbraio 1841 - Valle di Pompei, 5 Ottobre 1926
Inviato poi a Napoli per studiarvi Diritto, nel quale si laureò, vi perdette la fede e si irretì nelle oscure pratiche dello spiritismo. Ma i richiami della coscienza e il saggio consiglio di un vero amico, lo condussero ai piedi del Padre Radente, dotto e santo Domenicano, che rianimò in quell’anima lo slanciò per le vie dell’eroismo cristiano, animando in lui la propagazione della devozione al S. Rosario, da cui poi è sbocciato il santuario di Pompei. Fu ancora Padre Radente che lo aggregò al Terz’Ordine di San Domenico, di cui il Longo visse tutto lo spirito. Unitosi in matrimonio ad un’altra anima eletta, la Contessa De Fusco, per cinquant’anni vissero insieme in angelica unione di anima, solo consacrati ad un santo ideale. Sostenuto dal miracoloso intervento di Maria, e da un ardentissima fede, nel 1876 Longo poté far sorgere Pompei, la città del miracolo, con le grandiose opere di beneficenza alimentate dai prodigi della Vergine. Fino all’ultimo egli scrisse, pregò, lavorò instancabile per la sua dolce Regina e Signora.
Etimologia: Bartolo = figlio del valoroso, dall'aramaico
Martirologio Romano: A Pompei presso Napoli, beato Bartolomeo Longo: avvocato dedito al culto mariano e all’istruzione cristiana dei contadini e dei fanciulli, fondò, con l’aiuto della pia moglie, il santuario del Rosario a Pompei e la Congregazione delle Suore che porta lo stesso titolo.
La Madonna del Rosario ha un culto molto antico; si risale all’epoca dell’istituzione dei domenicani (XII secolo), i quali furono i maggiori propagatori del culto del S. Rosario. La devozione della recita del rosario, chiamato anche ‘Salterio’, ebbe larga diffusione per la facilità con cui si poteva pregare; fu chiamato il Vangelo dei poveri, che in massima parte non sapevano leggere, perché dava il modo di poter pregare e nello stesso tempo meditare i misteri cristiani, senza la necessità di leggere un testo.
I misteri contemplati nella recita del Rosario sono ora venti, cinque gaudiosi, cinque della luce, cinque dolorosi, cinque gloriosi; per ogni mistero si recita un Padre Nostro, dieci Ave Maria e un Gloria al Padre; alla fine dei cinque misteri si conclude con la preghiera del Salve Regina.
Alla protezione della Vergine del Rosario, fu attribuita la vittoria della flotta cristiana sui turchi musulmani, avvenuta a Lepanto nel 1571. A seguito di ciò, il papa s. Pio V (1504-1572), istituì dal 1572 la festa del Santo Rosario, alla prima domenica di ottobre, che poi dal 1913 è stata spostata al 7 ottobre.
Il culto per il S. Rosario ebbe un’ulteriore diffusione dopo le apparizioni di Lourdes del 1858, dove la Vergine raccomandò la pratica di questa devozione. La Madonna del Rosario, ebbe nei secoli una vasta gamma di raffigurazioni artistiche, quadri, affreschi, statue, di solito seduta in trono con il Bambino in braccio, in atto di mostrare o dare la corona del Rosario; la più conosciuta è quella che oltre quanto detto, si vede la corona data a S. Caterina da Siena e a s. Domenico Guzman, inginocchiati ai lati del trono.
Ed è uno di questi quadri che ha dato vita alla devozione tutta mariana di Pompei; a questo punto bisogna parlare dell’iniziatore di questo culto, il beato Bartolo Longo.
L’avvocato Bartolo Longo nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841, di temperamento esuberante, da giovane si dedicò al ballo, alla scherma ed alla musica; intraprese gli studi superiori in forma privata a Lecce; dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza nell’Università di Napoli.
Fu conquistato dallo spirito anticlericale che in quegli anni dominava nell’Ateneo napoletano, al punto da partecipare a manifestazioni contro il clero e il papa. Dubbioso sulla religione, si lasciò attrarre dallo spiritismo, allora molto praticato a Napoli, fino a diventarne un sacerdote che celebrava i riti imitando quelli della Chiesa.
Per sua buona sorte era legato da una solida amicizia con il prof. Vincenzo Pepe, suo compaesano e uomo religiosissimo, il quale saputo del suo tormento interiore lo avvicinò, convincendolo ad avere contatti con il dotto domenicano padre Radente, che con i suoi consigli e la sua dottrina, lo ricondusse alla fede cattolica e alle pratiche religiose.
Intanto il 12 dicembre 1864 si era laureato in Diritto, ritornò al paese natio e prese a dedicarsi ad una vita piena di carità e opere assistenziali; rinunziò al matrimonio, ricordando le parole del venerabile Emanuele Ribera redentorista: “Il Signore vuole da te grandi cose, sei destinato a compiere un’alta missione”.
Superati gli indugi, abbandonò la professione di avvocato, facendo voto di castità e ritornò a Napoli per dedicarsi in un campo più vasto alle opere di beneficenza; qui incontrò il beato padre Ludovico da Casoria, francescano, e la beata Caterina Volpicelli, due figure eminenti della santità cattolica dell’Ottocento napoletano, entrambi fondatori di Opere assistenziali e Congregazioni religiose, i quali lo consigliarono e indirizzarono ad una santa amicizia con la contessa Marianna De Fusco.
Da qui il beato Bartolo Longo ebbe una svolta decisiva per la sua vita, divenne compagno inseparabile nelle opere caritatevoli della contessa, che era vedova, inoltre divenne istitutore dei suoi figli e amministratore dei vasti beni. La loro convivenza diede adito a parecchi pettegolezzi, pur avendo il beneplacito dell’arcivescovo di Napoli cardinale Guglielmo Sanfelice; dopo un’udienza accordata loro da papa Leone XIII, il quale sollecitava una soluzione confacente, decisero di sposarsi nell’aprile 1885, con il proposito però di vivere come buoni amici, in amore fraterno, come avevano fatto fino allora.
La contessa De Fusco era proprietaria di terreni ed abitazioni nel territorio di Pompei e Bartolo Longo, come amministratore si recava spesso nella Valle; vedendo l’ignoranza religiosa in cui vivevano i contadini sparsi nella campagne, prese ad insegnare loro il catechismo, a pregare e specialmente a recitare il rosario.
Una pia suora, Maria Concetta de Litala, gli donò una vecchia tela raffigurante la Madonna del Rosario, molto rovinata; restauratala alla meglio, Bartolo Longo decise di portarla nella Valle di Pompei e lui stesso racconta, che nel tratto finale, poggiò il quadro per trasportarlo, su un carro, che faceva la spola dalla periferia della città alla campagna, trasportando letame, che allora veniva usato come concime nei campi.
Il 13 febbraio 1876, il quadro venne esposto nella piccola chiesetta parrocchiale, da quel giorno la Madonna elargì con abbondanza grazie e miracoli; la folla di pellegrini e devoti aumentò a tal punto che si rendeva necessario costruire una chiesa più grande.
Bartolo Longo su consiglio anche del vescovo di Nola, Formisano che era l’Ordinario del luogo, iniziò il 9 maggio 1876 la costruzione del tempio che terminò nel 1887. Il quadro della Madonna, dopo essere stato opportunamente restaurato, venne sistemato su un trono splendido; l’immagine poi verrà anche incoronata con un diadema d’oro, ornato da più di 700 pietre preziose e benedetto da papa Leone XIII.
La costruzione venne finanziata da innumerevoli offerte di denaro, proveniente da tante Associazioni del Rosario, sparse in tutta Italia, in breve divenne centro di grande spiritualità come lo è tuttora, fu elevata al grado di Santuario, centro del Sacramento della Confessione di milioni di fedeli, che si accostano alla santa Comunione in tutto l’anno.
Il beato Bartolo Longo istituì per le opere sociali, un orfanotrofio femminile, affidandone la cura alle suore Domenicane Figlie del Rosario di Pompei, da lui fondate; ancora realizzò l’Istituto dei Figli dei Carcerati in controtendenza alle teorie di Lombroso, secondo cui i figli dei criminali sono per istinto destinati a delinquere; chiamò a dirigerli i Fratelli delle Scuole Cristiane.
Fondò nel 1884 il periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” che ancora oggi si stampa in centinaia di migliaia di copie, diffuse in tutto il mondo; la stampa era affidata alla tipografia da lui fondata per dare un avvenire ai suoi orfanelli; altre opere annesse sono asili, scuole, ospizi per anziani, ospedale, laboratori, Casa del pellegrino.
Il santuario fu ampliato nel 1933-39, con la costruzione di un massiccio campanile alto 80 metri, un poco isolato dal tempio, con 11 campane di cui la più grande è di 50 quintali, con ascensore interno per la visita panoramica fino alla cima, dove c’è una grande croce luminosa di sette metri, enormi statue in bronzo, alte 5-6 metri ciascuna, sono esterne al campanile posizionate a vari livelli di altezza.
Nel 1893 Bartolo Longo offrì al papa Leone XIII la proprietà del Santuario e di tutte le opere pompeiane, qualche anno più tardi rinunziò anche all’amministrazione che il papa gli aveva rimasta; l’interno è a croce latina, tutta lavorata in marmo, ori, mosaici dorati, quadri ottocenteschi, con immensa cripta, il trono della Vergine circondato da colonne, sulla crociera vi è l’enorme cupola di 57 metri tutta affrescata.
Bartolo Longo in un pubblico discorso, lasciò le onorificenze ricevute, ai suoi orfani e la raccomandazione di essere sepolto nel santuario vicino alla sua Madonna; morì il 5 ottobre del 1926 e come suo desiderio fu sepolto nella cripta, in cui riposa anche la contessa De Fusco.
Aveva trovato una zona paludosa e malsana, a causa dello straripamento del vicino fiume Sarno, abbandonata praticamente dal 1659, nonostante l’antica storia di Pompei, città di più di 20.000 abitanti nell’epoca romana, distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 24 agosto 79 d.C.
Alla sua morte lasciò una città ripopolata, salubre, tutta ruotante attorno al Santuario e alle sue numerose Opere, a cui poi si affiancò il turismo per i ritrovati scavi della città sepolta.
È sua l’iniziativa della Supplica, da lui compilata, alla Madonna del Rosario di Pompei che si recita solennemente e con gran concorso di fedeli, l’8 maggio e la prima domenica di ottobre.
Bartolo Longo è stato beatificato il 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II. Il santuario è basilica pontificia e come Loreto è sede di un vescovo (prelatura) con giurisdizione su Pompei. Papa Giovanni Paolo II vi si è recato in pellegrinaggio all’inizio del suo pontificato, nel 1979 e una seconda volta nel compimento dei suoi 25 anni di pontificato nel 2003, a concludere ai piedi di Maria l’anno del Rosario da lui indetto.
Autore: Antonio Borrelli
+ Kyoto, Giappone, 6 ottobre 1619
52 laici giapponesi della diocesi di Funai subirono il martirio presso Arima il 7 ottobre 1613 nel contesto di feroci ondate persecutorie contro i cristiani. Del gruppo fanno parte anche alcune coppie di sposi: Giovanni Hashimoto Tahyoe e sua moglie Tecla, con i loro 5 figli, Lino Rihyoe e sua moglie Maria, Giovanni Kyusaku e sua moglie Maddalena, con la loro figlia Regina (2 anni), Tommaso Koshima Shinshiro e sua moglie Maria, Tommaso Toemon e sua moglie Lucia, Gerolamo Soroku e sua moglie Lucia. Inoltre si contano anche alcuni altri piccoli fanciulli con le loro mamme: la Beata Monica (4 anni) figlia della Beata Maria, il Beato Benedetto (2 anni) figlio della Beata Marta, il Beato Sisto (3 anni) figlio della Beata Maria, la Beata Marta (7 anni) figlia della Beata Rufina, il Beato Tommaso Kajiya Yoemon figlio della Beata Anna.
In seguito ad un rapido processo iniziato con il Nulla Osta della Santa Sede concesso in data 2 settembre 1994, è stato riconosciuto il loro martirio il 1° luglio 2007 e sono stati beatificati il 24 novembre 2008, sotto il pontificato di Papa Benedetto XVI, unitamente ad un gruppo complessivo di 188 martiri giapponesi.
+ Kyoto, Giappone, 6 ottobre 1619
Nelle feroci persecuzioni scatenatesi in Giappone nei secoli scorsi contro i cristiani caddero vittime la Beata Tecla Hashimoto, crociffissa, ed a lei legati i figli Caterina (13 anni), Tommaso (12 anni), Francesco (8 anni), Pietro (6 anni) e Ludovica (3 anni). Prima di loro, il medesimo giorno 6 ottobre 1619 sempre presso Kyoto era stato ucciso il loro padre Giovanni. Questa intera famiglia è stata beatificata il 24 novembre 2008 sotto il pontificato di Papa Benedetto XVI, unitamente al folto gruppo di martiri giapponesi denominato “Pietro Kibe Kasui e 187 compagni”.
+ Arima, Giappone, 7 ottobre 1613
8 laici giapponesi della diocesi di Funai subirono il martirio presso Arima il 7 ottobre 1613 nel contesto di feroci ondate persecutorie contro i cristiani. Del gruppo fanno parte Adriano Takahashi Mondo e sua moglie Giovanna, Leone Hayashida Sukeemon e sua moglie Marta, con i figli Maddalena (20 anni) e Diego (12 anni), ed infine Leone Takedomi Kan'Emon con suo figlio Paolo.
In seguito ad un rapido processo iniziato con il Nulla Osta della Santa Sede concesso in data 2 settembre 1994, è stato riconosciuto il loro martirio il 1° luglio 2007 e sono stati beatificati il 24 novembre 2008, sotto il pontificato di Papa Benedetto XVI, unitamente ad un gruppo complessivo di 188 martiri giapponesi.
Treviso, 7 marzo 1845 – Pisa, 7 ottobre 1918
Professore di economia politica, fu uno dei maggiori ideologi della politica dei cattolici italiani e uno degli artefici del loro inserimento nella vita pubblica.
Giuseppe Toniolo nacque a Treviso il 7 marzo 1845; si laureò in giurisprudenza a Padova nel 1867, rimase nello stesso Ateneo in qualità di assistente, sino al 1872, trasferendosi successivamente prima a Venezia, dove insegnò Economia Politica, poi a Modena e infine a Pisa, quale docente universitario ordinario, incarico che occupò fino alla sua morte avvenuta nel 1918.
È necessario dare uno sguardo alla società politica in cui si trovò ad operare; dopo la Rivoluzione Francese ed il periodo napoleonico, che avevano sconvolto la Francia e l’intera Europa e dopo il Congresso di Vienna del 1815, si auspicò un ritorno all’antico legame fra la Chiesa e la società civile, che l’Illuminismo aveva incominciato a distinguere.
Ma il potere civile, sostenuto dalle dottrine della sovranità nazionale, diventava sempre più autonomo dalla vita religiosa; verso la metà del secolo, il filosofo danese Soren Kirkegaard (1813-1855), ritenendo ancora possibile la cristianità, notò che questa aveva abolito il cristianesimo senza accorgersene, quindi bisognava operare affinché il cristianesimo venisse reintrodotto nella cristianità.
Il mutato rapporto fra autorità civile e autorità religiosa, spinse molti cattolici di vari Paesi d’Europa, ad organizzarsi in movimenti di attiva opposizione alla nuova realtà politica e il 20 e 21 agosto 1863, fu organizzato a Malines in Belgio, il primo Congresso Cattolico Internazionale, al quale parteciparono le varie Associazioni sorte in Europa, tranne l’Italia rappresentata solo da quattro laici e due monsignori.
Questo perché in Italia tutto fu complicato dalla “Questione Romana”, e in particolare dal potere temporale del papato su una parte del territorio italiano, rivendicato dal Regno d’Italia costituitosi nel 1862; creando così una frattura nella coscienza di molti cattolici.
I laici italiani erano aggregati in associazioni limitate alle plurisecolari confraternite, con scopi di una particolare devozione religiosa, mutuo aiuto fra soci e attuando opere di carità.
Ormai era tempo di un nuovo associazionismo cattolico e nel 1867 in occasione del terzo Congresso di Malines, la prestigiosa rivista gesuita “La Civiltà Cattolica”, incitò i cattolici italiani, a formare associazioni, coalizioni, congressi, perché “questi mezzi sono, posto lo stato presente della società, efficacissimi”, non si poteva lasciarli agli avversari del cattolicesimo che se ne avvalevano contro.
E già il 29 giugno 1867, sorse la “Società della Gioventù Cattolica Italiana”, primo nucleo della successiva “Azione Cattolica Italiana”; intanto gli eventi politici precipitarono con la breccia di Porta Pia a Roma del 29 settembre 1870, la protesta di papa Pio IX che si chiuse in Vaticano; poi nel 1871 l’Italia emise le Leggi delle Guarentigie che assicuravano gli onori sovrani al pontefice e il godimento del Vaticano; nel luglio 1871 Roma divenne capitale d’Italia.
L’11 ottobre 1874 i contrasti non erano per niente finiti e il papa con il “non expedit”, vietò ai cattolici di candidarsi o di recarsi alle urne, trasformato nel divieto assoluto (non licet) del 29 gennaio 1877.
Dopo l’Azione Cattolica, sorsero in Italia una miriade di società, pie unioni, circoli, opere sociali, con una conseguente dispersione di energie, che resero necessaria la costituzione di un organismo coordinatore nel rispetto delle singole autonomie.
Il 26 settembre 1875, durante il secondo Congresso generale dei cattolici italiani, si creò l’”Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici”, il cui primo Presidente fu Giovanni Acquaderni, fondatore con il conte Mario Fani, dell’Azione Cattolica.
Nella scia di questa Organizzazione, il 29 dicembre 1889 durante un convegno a Padova, venne costituita l’“Unione cattolica per gli studi sociali”, il cui presidente e fondatore fu il professor Giuseppe Toniolo, il quale nel 1893, la dotò del periodico “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie”.
Ormai si era in un periodo pieno di fermenti politici, religiosi e culturali; il pensiero marxista spostava l’attenzione sulle condizioni delle masse proletarie, denunciandone le disagiate condizioni di vita e di lavoro, inoltre in campo economico, le idee di utilitarismo e di liberismo economico, sostenevano dannoso per la stabilità, qualunque intervento che potesse influire sull’azione delle componenti macroeconomiche; senza dimenticare che era il periodo della famosa enciclica sociale “Rerum Novarum” di papa Leone XIII, con la quale la Chiesa prendeva ufficialmente posizione in merito alla situazione operaia di quel tempo.
Giuseppe Toniolo, elaborò così una sua teoria, personale, sociologica, affermante il prevalere dell’etica e dello spirito cristiano sulle dure leggi dell’economia.
Propose una soluzione del problema sociale, che rifiutava sia l’“individualismo” del sistema capitalistico, che il “collettivismo” esasperato, propagato dal socialismo, attraverso la costituzione di corporazioni di padroni e lavoratori, riconosciute dallo Stato.
Nei suoi numerosi scritti, il Toniolo propose varie soluzioni: il riposo festivo, la limitazione delle ore lavorative, la difesa della piccola proprietà, la tutela del lavoro delle donne e dei ragazzi.
Dal punto di vista religioso, Giuseppe Toniolo fu fautore di un’azione più decisa dei cattolici in campo sociale, al fine di una loro determinante partecipazione all’evoluzione storica di quegli anni, da qui le sue tante fondazioni.
Dal 1894 divenne uno degli animatori del movimento della “democrazia cristiana”, le cui basi furono esposte nel cosiddetto ‘programma di Milano’, con principi e proposte per il rinnovamento in senso cristiano della società.
Nel 1897 l’Opera dei Congressi, controllava 588 Casse Rurali, 668 Società Operaie, 708 Sezioni di giovani, una forza consistente, alla cui ombra sorgevano e si sviluppavano molte iniziative di forte impegno sociale.
Fondandosi sui suoi studi di storia economica medioevale della Toscana, oppose ai marxisti l’importanza dei fattori etici e spirituali sullo sviluppo dell’economia e difese il valore economico-sociale della religione, conciliando così fede e scienza.
Nel 1908 pubblicò il “trattato di economia sociale”, opera fondamentale per l’incidenza che ebbe sul nuovo movimento sociale cattolico italiano all’inizio del Novecento, che ben presto, sviluppò il sindacalismo cattolico (detto ‘bianco’ per distinguerlo da quello diretto da ‘rossi’); i cattolici dopo la sospensione del “non expedit” parteciperanno in massa alle lezioni del 1913, ottenendo per la prima volta dopo l’Unità d’Italia, una ventina di deputati cattolici.
Oltre alla sua opera fondamentale già citata, Toniolo scrisse: “La democrazia cristiana” (1900); “Il socialismo nella storia della civiltà” (1902); “L’odierno problema sociologico” (1905); “L’unione popolare tra i cattolici d’Italia” (1908).
Degno sposo e padre di famiglia, professore emerito e apprezzato nell’Università, dirigente e fondatore di opere sociali, scrittore fecondo di economia e sociologia, cristiano tutto d’un pezzo e fedele alla Chiesa, stimato dai pontefici del suo tempo, amico e consigliere del Beato Bartolo Longo, nella fondazione del Santuario e opere annesse di Pompei; morì fra il cordoglio generale, il 7 ottobre 1918 a Pisa.
Il 4 settembre 1878 sposò Maria Schiratti di Pieve di Soligo, dalla quale ebbe sette figli.
Il 7 gennaio 1951 fu introdotta la Causa per la sua beatificazione e il 14 giugno 1971 fu emesso il decreto sulle sue virtù con il titolo di ‘venerabile’. Fu beatificato il 29 aprile 2012 da papa benedetto XVI.
Autore: Antonio Borrelli
+ Egitto, fine IV secolo
Vissero in Egitto verso la fine del IV secolo, al tempo dell'imperatore Teodosio. Andronico, orafo ad Antiochia, sposò Atanasia dalla quale ebbe due figli, entrambi morti in tenera età. I coniugi, però, interpretarono la perdita dei bambini quale un rimprovero divino alla loro condotta non propriamente improntata allo spirito evangelico. In seguito all'apparizione di san Giuliano ad Atanasia, che la invitava a consacrarsi interamente a Dio con il marito, distribuirono allora tutti i loro beni ai poveri e intrapresero numerosi pellegrinaggi in Egitto ed in Terra Santa. Separati per vivere la loro scelta religiosa, Atanasia giunse al monastero femminile di Tabenna, travestendosi da uomo per vivere le fatiche fisiche e spirituali non adatte a una donna. Per le sue qualità ottenne la direzione dei centri religiosi nati proprio in quegli anni in Palestina ed Egitto. Qui giunse Andronico, che però non riconobbe la moglie. Solo dopo la morte di Anastasia l'uomo venne a sapere della vera identità della moglie e chiese di essere sepolto accanto a lei a Gerusalemme. La biografia è stata di certo arricchita da contenuti letterari, ma il culto dei due santi si diffuse a Cipro e nelle Chiese copte egiziana ed etiope. (Avvenire)
I santi Andronico ed Anastasia vissero in Egitto verso la fine del IV secolo, al tempo dell’imperatore Teodosio, come testimoniano le commemorazioni riportate dai menei, menologi e sinassari greci nelle date del 2 marzo, 6 e 12 maggio e 9 ottobre.
Andronico, che esercitava il mestiere di orafo presso Antiochia, convolò a nozze con Atanasia dalla quale ebbe due figli, entrambi morti in tenera età. I coniugi, anziché cadere nello sconforto, interpretarono la perdita dei bambini quale un rimprovero divino alla loro condotta non propriamente improntata allo spirito evangelico. In seguito all’apparizione di San Giuliano ad Atanasia, che la invitava a consacrarsi interamente a Dio con il marito, distribuirono allora tutti i loro beni ai poveri ed intrapresero numerosi pellegrinaggi in Egitto ed in Terra Santa.
Al ritorno dalla Palestina, Andronico ed Atanasia conobbero San Daniele, abate di Scete, cosa un po’ strana in quanto tale santo visse solo due secoli dopo. Il santo abate trattenne Andronico presso di sé, mentre inviò Atanasia al monastero femminile di Tabenna. Dodici anni dopo Atanasia decise di vestire panni virili onde poter essere sottoposta a maggiori torture e patimenti non confacenti il gentil sesso. Per la sua magnanimità ed il suo spirito di santificazione, ottenne la direzione dei centri religiosi nati proprio in quegli anni in Palestina ed Egitto. Andronico, desideroso di conoscere quei famosi monasteri, si mise in viaggio per visitarli. Atanasia appena lo vide riconobbe il suo marito, ma preferì non rivelarsi invitandolo comunque a fermarsi in quel monastero. Denominato “monastero XVIII” dal numero delle miglia che lo separavano da Alessandria d’Egitto.
Dopo una dozzina d’anni Atanasia morì: solo allora Andronico scoprì la sua reale identità e di essere sepolto accanto a lei presso Gerusalemme. La vicenda di questi santi coniugi pare essere una finzione letteraria ispirata ai più frequenti luoghi comuni dell’agiografia monastica, purtroppo priva quindi di qualunque autenticità. La loro festa si diffuse nelle Chiese copte egiziana ed etiope, nonché a Cipro ove erano oggetto di particolare venerazione.
Autore: Fabio Arduino
Ur dei Caldei - Canaan, XIX secolo a.C.
Nella Bibbia due titoli definiscono precipuamente Abramo, il patriarca, originario della Mesopotamia, stabilitosi a Carran e di lì emigrato nella terra di Canaan. Amico di Dio, egli è il padre dei credenti. Come amico della divinità, è modello di vita religiosa e morale, che può intercedere per sé e per i suoi alleati. Come credente, vive nella tensione tra fede e promessa.
Lascia il suo paese guidato dalla fiducia nella parola di Dio, ma le circostanze sembrano contraddire l’attesa: il patriarca è anziano, Sara non è in grado di avere figli.
«Abramo, tuttavia, credette nel Signore che glielo accreditò come giustizia». La dialettica della fede, però, diviene ancora più acuta con l’inaudita richiesta di sacrificare Isacco. Il viaggio di Abramo verso il monte Moria in compagnia del figlio diventa il paradigma della notte oscura, del viaggio della fede nella tenebra di Dio il quale sembra rinnegare la promessa tanto attesa e coltivata.
All’obbedienza del padre risponde il gesto di liberazione di Dio. In ambito cristiano è soprattutto l’apostolo Paolo a riflettere sulla figura di Abramo. Fedele alla sua concezione, ritiene che il patriarca, giustificato per la fede, sia sorgente di benedizione per l’umanità.
Inoltre, proprio dalla riflessione sulla sua figura Paolo trae la conclusione che la salvezza non deriva dalle opere ma dal dono di Dio accolto nella fede. Su questo punto insistettero Lutero, i teologi, gli uomini di cultura e gli artisti che aderirono alla riforma del XVI secolo. Modello di fede per ebrei e cristiani, Abramo è venerato anche dai seguaci dell’Islam.
Etimologia: Abramo = grande padre, dall'ebraico
Martirologio Romano: Commemorazione di sant’Abramo, patriarca e padre di tutti i credenti, che, chiamato da Dio, uscì dalla sua terra, Ur dei Caldei, e si mise in cammino per la terra promessa da Dio a lui e alla sua discendenza. Manifestò, poi, tutta la sua fede in Dio, quando, sperando contro ogni speranza, non si rifiutò di offrire in sacrificio il suo figlio unigenito Isacco, che il Signore aveva donato a lui già vecchio e da una moglie sterile.
Padre di tutti i credenti, così è chiamato Abramo patriarca del Vecchio Testamento e che rappresentò l’umanità nella grande alleanza che Dio propose.
Con la vicenda di Abramo, inizia la storia dei Patriarchi d’Israele, che va dal XIX al XVII secolo a.C., raccontata dal capitolo 12 al capitolo 50 nel primo libro della Bibbia, la Genesi.
Egli era discendente di Sem, uno dei tre figli di Noé e dimorava con il padre Terah e con tutta la famiglia ad Ur dei Caldei, antichissima città della Bassa Mesopotamia (attuale Iraq).
Terah poi con Abramo e sua moglie Sara e con il nipote Lot, lasciò Ur per emigrare nella terra di Canaan, arrivarono fino ad Harran (Carran) stabilendosi lì per lungo tempo, fino alla morte di Terah che visse 205 anni. Qui avvenne il fatto umanamente inspiegabile, Dio irrompe nella vita ordinaria di Abramo e gli parla chiamandolo ad una missione tanto grande quanto misteriosa: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno, maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”.
Abramo risponde con la fede; sarà poi sempre l’uomo della fede, il primo e il modello dei credenti e in quanto tale è padre di ogni credente, non soltanto della comunità ebraica, cristiana ed islamica, ma anche di tutti gli esseri umani, in cammino alla ricerca di Dio.
A 75 anni prese con sé la moglie Sara e il nipote Lot, figlio del defunto fratello Aran e si sposta alla maniera dei nomadi, con tutto il bestiame ed i servitori, lungo la regione montuosa della Palestina, toccando e soggiornando in vari luoghi, a Mamre nei pressi di Hebron, Canaan, Sichen, Bersabea nel Negheb, per un breve tempo a causa di una carestia, anche in Egitto; stabilendosi definitivamente nella steppa meridionale del Negheb.
In seguito a contrasti sorti fra i mandriani di Abramo e quelli di Lot che pure aveva grosse mandrie e greggi, per il poco spazio disponibile, Abramo e Lot si divisero; Lot si diresse allora verso la rigogliosa valle del Giordano, piantando le tende vicino a Sodoma, Abramo rimase nella terra di Canaan.
In quel tempo vi fu una scorreria al di là del Giordano e a sud della Palestina, di una spedizione di re orientali provenienti dall’est di Babilonia, i quali combattendo e vincendo i piccoli re della Pentapoli (Sodoma, Gomorra, Adma, Sebain, Soar) presero bottino e cittadini prigionieri, compreso Lot con i suoi beni.
Abramo avvertito di ciò, intervenne con i suoi uomini più esperti nelle armi e piombando di notte sugli invasori li sconfisse, liberò Lot e gli altri prigionieri, recuperando i beni, inseguendoli fino oltre Damasco.
Del bottino fatto, Abramo offrì una decima a Melchisedech, sacerdote dell’Altissimo e re di Shalem, che gli era venuto incontro benedicendolo e Dio gli confermò la promessa di dare il paese di Canaan ai suoi discendenti. Intanto la moglie Sara essendo sterile e vecchia, per dargli un figlio, cedette al marito la schiava Agar da cui nacque Ismaele; Dio rinnovò il patto con Abramo che aveva 99 anni, promettendogli grandi ricompense, allora lui disse, “Cosa mi darai? Vedi che a me non hai dato discendenza e che un mio domestico sarà mio erede” e Dio a lui “non costui sarà il tuo erede, ma colui che sarà generato da te sarà il tuo erede, guarda in cielo e conta le stelle, tale sarà la tua discendenza” e poi mediante un sacrificio di animali, come era uso fra gli ebrei, Dio suggellò la sua Alleanza con Abramo, sancita con la circoncisione di Abramo, di Ismaele e di tutti i maschi del gruppo, da perpetuarsi con ogni bimbo nato in seguito.
Dio apparve ancora ad Abramo alla Quercia di Mamre sotto le sembianze di tre uomini, ai quali lui offrì cibo, bevande e ospitalità; i tre gli predissero che Sara avrebbe avuto un figlio da lì ad un anno, benché molto vecchia, poi dissero di essere diretti a distruggere le città di Sodoma e Gomorra per i peccati dei loro abitanti.
Abramo intercesse più volte per loro, affinché venissero risparmiati in virtù dei buoni presenti fra essi; gli angeli, perché di angeli si trattava, concessero che anche per solo dieci giusti, essi avrebbero risparmiato le città. Ma non si trovarono, il solo Lot e sua moglie furono risparmiati; le città sotto una pioggia di fuoco e zolfo, bruciarono con tutti gli abitanti, mentre Lot e la moglie fuggivano, quest’ultima benché avvertita di non farlo, si voltò a guardare l’incendio e si tramutò in una statua di sale.
Più tardi nacque Isacco e Sara fece allontanare la schiava Agar con il figlio Ismaele, con grande dolore del patriarca, al quale però il Signore promise anche per Ismaele una grande discendenza. A questo punto si arriva al momento più drammatico della vita di Abramo, ma anche più rivelatore della sua grande fiducia in Dio; il Signore volle metterlo ancora alla prova, lo chiamò quando Isacco era già fanciullo e gli disse di portarlo sul monte nel territorio di Moria e di sacrificarlo, come si usava per i sacrifici di animali offerti a Dio.
Nonostante il dolore provato per questa richiesta di sacrificare quell’unico figlio, nato così prodigiosamente nella tarda vecchiaia e che secondo le promesse di Dio, avrebbe assicurato la sua discendenza, Abramo obbedì, ma quando stava per portare a compimento con il coltello, l’uccisione del figlioletto, un angelo apparso lo fermò dicendo: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo unico figliuolo”.
Alzando gli occhi poi Abramo vide un ariete impigliato con le corna fra i rami di un arbusto e presolo, insieme ad Isacco, lo sacrificarono sull’altare improvvisato prima. Dio tramite l’angelo gli promise, per questa ubbidienza alla Sua volontà, anche quando tutto veniva rimesso in questione, ogni benedizione, la moltiplicazione della discendenza come la sabbia delle spiagge e le stelle nel cielo e saranno benedette tutte le Nazioni della terra.
Morta Sara a 127 anni, Abramo mandò il servo Eliezer in Mesopotamia a cercare una moglie per il figlio Isacco, il quale ritornò con Rebecca della stessa famiglia di Abramo. Il patriarca poi sposò Ketura, dalla quale ebbe sei figli, Zimran, Ioksan, Medan, Madian, Isbak e Suach.
Morì a 175 anni nella terra di Canaan, lasciando erede universale Isacco e un appannaggio agli altri figli. Alla sua genealogia si riallacciano gli Ebrei attraverso Isacco, vissuto 180 anni e gli arabi attraverso Ismaele, che visse 137 anni; la sua importanza per gli ebrei crebbe sempre più, venendo considerato il progenitore e l’uomo del primo patto con Dio; in tutta la tradizione che seguirà, il Signore è spesso chiamato il “Dio di Abramo”.
Il drammatico episodio del sacrificio di Isacco, in cui Dio manifesta di non gradire i sacrifici umani, è stato in ogni tempo raffigurato nelle opere dei più grandi artisti.
La Chiesa Cattolica ricorda Abramo, padre di tutti credenti, al 9 ottobre.
Autore: Antonio Borrelli
Sec XV
Al nome dei Malatesta, il pensiero corre subito alla Romagna e a Rimini, la città che dal XII secolo fu la signoria di questa celebre e potente famiglia, insieme con gran parte della Marca d'Ancona.
Ma il nome dei Malatesta, Signori di Rimini, non evoca di solito ricordi di santità o di perfezione spirituale. Evoca piuttosto echi di successi guerreschi e mondani, spesso privi di scrupoli, conditi di superbia e di crudeltà, di ambizione e di sopraffazione.
Anche il più celebre membro della famiglia, Sigismondo Pandolfo, uno dei più valenti condottieri del '400, ebbe una vita estremamente turbinosa e non certo esemplare dal punto di vista morale e spirituale.
Se ne riscattò soltanto in parte con il suo tenace amore per Isotta degli Atti e per il suo mecenatismo verso uomini d'afte e di cultura, di cui è testimonianza, a Rimini, lo splendido Tempio Malatestiano, costruito da Leon Battista Alberti architetto, e decorato da Agostino di Duccio scultore e da Piero della Francesca pittore.
Può sorprendere, dunque, trovare il cognome dei Malatesta portato da un Santo, o meglio da un Beato, il Beato Roberto. Non si tratta di un caso di omonimia, ma proprio del figlio del Signore di Rimini, nato a Brescia nel 1411 e vissuto - brevissimamente - nella città adriatica che avrebbe visto poco dopo i fasti e i nefasti di Sigismondo Pandolfo.
Nella storia politica della famiglia Malatesta, la vita di Roberto trascorse quasi senza peso. Era un giovane delicato, di salute e di anima, al quale, sedicenne, venne data in sposa, contro la sua volontà, ma per precisi criteri dinastici, la giovane Margherita d'Este, nata nella famiglia dei Signori di Ferrara.
I due giovanissimi sposi vissero insieme castamente e santamente, quasi isolati, nella corazza della loro virtù, da quello che era, di regola, l'ambiente frivolo e superbo delle grandi famiglie signorili dei tempo.
Roberto era terziario francescano, e del Terzo Ordine osservò la Regola con una fedeltà e una costanza degna di un vero asceta.
Si fece ammirare e amare per pietà e carità, soprattutto nei confronti degli infermi, e addirittura dei lebbrosi.
Morì, forse di contagio, quando aveva soltanto ventitré anni. A Rimini lasciò commosso rimpianto, ma sembrò che il ricordo di quel giovane fragile e schivo dovesse presto scomparire, nell'ombra gettata da altri personaggi ben più imponenti e di imprese ben più clamorose. Così invece non fu, se la memoria di Roberto Malatesta, venerato come Beato, è sopravvissuta tenace fino ai nostri giorni, proprio grazie ai delicati meriti del giovane signore di Rimini, il quale aggiunse al nome ammirato e temuto dei Malatesta il profumo della difficile santità.
Fonte: Archivio Parrocchia
Palestina, primo secolo dopo Cristo
Secondo gli Atti degli apostoli è uno dei sette «uomini di buona reputazione» scelti come diaconi. Il primo, Stefano, è il protomartire; Filippo è il primo missionario della storia cristiana. Sulla strada della missione è costretto dalla persecuzione scoppiata dopo la morte di Stefano che induce gli ebrei cristiani ellenizzanti ad allontanarsi da Gerusalemme. Egli si reca, dunque, in Samaria che diviene la prima tappa dell’annuncio del Vangelo al di fuori della Giudea. I cristiani di Samaria restano in comunione con i fedeli della capitale. Pietro e Giovanni visitano i nuovi credenti e invocano su di loro lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani. La missione, tuttavia, non conosce confini. Dopo aver annunciato il Vangelo in Samaria, Filippo riceve dallo Spirito l’ordine di recarsi sulla strada per Gaza. Qui passa su un carro un funzionario africano che ritorna in patria dopo essere stato pellegrino a Gerusalemme. Filippo gli si avvicina e lo sente leggere un brano del profeta Isaia che parla di un misterioso servo condotto a morte. Ispirato dallo Spirito Santo, gli spiega che il testo parla in realtà di Gesù. Convinto, il funzionario africano gli chiede il battesimo, che Filippo gli amministra. Il Vangelo si accinge così a varcare una nuova frontiera, in direzione dell’Africa. Il diacono si stabilisce infine a Cesarea dove è chiamato evangelista, è cioè la guida delle comunità. Qui egli avrà l’onore di ospitare l’apostolo Paolo nella sua casa, dove vive con quattro figlie nubili che sono considerate profetesse. Nulla sappiamo della morte di questo generoso protagonista della prima comunità cristiana.
Martirologio Romano: Commemorazione di san Filippo, che fu uno dei sette diaconi eletti dagli Apostoli: convertì la Samaria alla fede di Cristo, battezzò l’eunuco di Candace regina d’Etiopia ed evangelizzò tutte le città che attraversava, fino a Cesarea, dove si ritiene che abbia terminato i suoi giorni.
Per distinguerlo da Filippo di Bethsaida, uno dei Dodici, gli Atti degli apostoli lo chiamano “evangelista”, nel senso di annunciatore del Vangelo. È uno dei sette "uomini di buona reputazione" scelti a Gerusalemme dai primi cristiani come aiutanti degli apostoli nelle incombenze pratiche (gli altri sono Stefano, Pròcoro, Nicanore, Timone, Pàrmena e Nicolao).
Ma non si limitano all’amministrazione: Stefano si impegna in un’appassionata predicazione, e viene ucciso con la lapidazione nell’offensiva anticristiana capeggiata, tra gli altri, da Saulo di Tarso. È il primo martire. Allora Filippo, con altri membri della prima comunità cristiana, fugge da Gerusalemme, e si fa poi evangelizzatore in Samaria con straordinari risultati. Predica, convince, battezza, e crea così la prima comunità cristiana oltre i confini della Giudea. Arrivano allora Pietro e Giovanni da Gerusalemme, a ratificare e completare la sua opera, imponendo le mani ai neobattezzati: "Essi ricevettero lo Spirito", dicono gli Atti, raccontando poi l’episodio del ciarlatano Simon Mago, che vorrebbe “comprare” da Pietro il potere di conferire lo Spirito, tirandosi invece addosso la sua cruda risposta: "Va’ in perdizione tu e il tuo denaro!". Dalla Samaria, Filippo ritorna poi a Gerusalemme. E un giorno, per ispirazione soprannaturale, si avvia lungo la strada per Gaza, dove incontra uno straniero sicuramente molto autorevole, perché viaggia su un cocchio.
È infatti un etìope, ministro della regina Candace. Fa salire Filippo con sé, e lo invita a commentare un brano del profeta Isaia che sta leggendo, ma che non capisce. Non è chiaro se egli sia di religione ebraica; ma certo si sente fortemente attratto dalla fede d’Israele, ed è venuto a Gerusalemme “per adorare”. Sul testo di Isaia incomincia tra lui e Filippo un dialogo che si concluderà con questa sua richiesta: "Che cosa impedisce che io sia battezzato?". E così se ne ritorna in Etiopia cristiano (Atti, cap. 8).
Filippo, pioniere dell’evangelizzazione fuori dalla Giudea, non agisce secondo un programma. Lo ha spinto in Samaria un momento di pericolo, e sulla via per Gaza lo ha indirizzato un segnale misterioso. Poi si ferma in Palestina: e lo troviamo predicatore nella regione costiera, lungo un itinerario che si conclude a Cesarea Marittima. Qui Filippo dà vita a una comunità cristiana e prende dimora stabile con le sue quattro figlie nubili, conosciute come “profetesse”. E qui, nella dimora dei suoi ultimi anni, un giorno entra come ospite l’antico persecutore Saulo, che ora è diventato Paolo Apostolo, fratello nella fede e nella predicazione (Atti, cap. 21).
Nulla di certo si sa della morte di Filippo. Sarebbe avvenuta a Cesarea, secondo una tradizione. Un’altra la pone invece nella città di Tralle (Asia Minore), di cui Filippo sarebbe stato vescovo.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
584 – 12 ottobre 633
Il santo oggi festeggiato si inserisce nella folta schiera di santità che contraddistinse parecchie corti inglesi nel primo millennio. Il regno di Northumbria era costituito principalmente da due territori, la Bernicia e la Deira, sostanzialmente gli attuali Northumbria e Yorkshire, e Sant’Edwin era un principe della Deira che trascorse molti anni di esilio, durante il regno di Etelfrith di Bernicia. Quando questi nel 616 cadde in battaglia, Edwin succedette al trono, divenendo ben presto “bretwalda”, cioè monarca assoluto con autorità estesa anche su tutti gli altri sovrani anglosassoni. In quel periodo della sua vita egli era ancora pagano e quindi, nel chiedere in moglie Etelburga, figlia del re cristiano del Kent, dovette assicurare che non avrebbe interferito con la vita religiosa della sposa. Etelburga partì allora per il nord, accompagnata dal suo cappellano San Paolino.
Secondo il celebre storico cristiano San Beda il Venerabile, Edwin era una persona assai prudente e meditò a lungo sull’eventualità della propria conversione al cristianesimo, ma infine tre fattori lo influenzarono verso tale scelta: l’essere scampato ad un attentato, il ricordo di una visione e di un voto fatto durante l’esilio ed infine, ma assolutamente non meno importante, una calorosa lettera ricevuta del pontefice San Gregorio Magno.
Come da tradizione il re radunò dunque i suoi consiglieri per sentire il loro autorevole parere ed uno di essi affermò: “O re, la vita degli uomini sulla terra, a confronto di tutto il tempo che ci è conosciuto, mi sembra come quando tu stai a cena con i tuoi dignitari d’inverno, con il fuoco acceso e le sale riscaldate, mentre fuori infuria una tempesta di pioggia e di neve, ed un passero entra in casa e passa velocissimo. Mentre entra da una porta e subito esce dall’altra, per questo poco tempo che è dentro non è toccato dalla tempesta ma trascorre un brevissimo momento di serenità; ma subito dopo rientra nella tempesta e scompare ai tuoi occhi. Così la vita degli uomini resta in vista per un momento, e noi ignoriamo del tutto che cosa sarà dopo, che cosa è stato prima. Perciò se questa nuova dottrina ci fa conoscere qualcosa di più certo, senz’altro merita di essere seguita”.
Stabilirono allora che la nuova religione avrebbe dovuto essere accolta solo nel qual caso fosse riuscita ad aiutarli a comprendere meglio il senso della vita, in quanto lo stesso sommo sacerdote dell’antico culto pagano locale riconobbe che a tal fine la religione dei loro padri non era di alcun aiuto. Invitato allora Paolino ad insegnare loro qualcosa in più sul suo Dio, decisero infine di aderire alla fede cristiana e di essere battezzati con il re Edwin a York nel 627.
Il re nominò poi San Paolino vescovo di tale città e promosse la costruzione di una chiesa in pietra nel sito ove ancora oggi sorge la cattedrale. Il santo monarca si adoperò inoltre per diffondere il cristianesimo ed una duratura pace in tutto il suo regno, tanto che Beda poté scrivere di lui: “Si tramanda che in quel tempo ci fu tanta pace in Britannia fin dove si estendeva il dominio del re Edwin che, come tuttora si usa dire proverbialmente, anche se una donna sola voleva percorrere tutta l’isola con un figlio natole da poco, poteva farlo senza pericolo alcuno”.
Nel 633 però Edwin cadde in battaglia, sconfitto preso Hetfield Chase dalle forze alleate del re gallese Cadwallon e del re pagano Penda di Mercia. In Inghilterra iniziò ben presto a nascere un culto popolare nei suoi confronti quale martire, soprattutto a York ed a Whitby, che culminò con la traslazione nell’abbazia di quest’ultima località, evento da considerarsi per quei tempi una vera e propria canonizzazione. Il pontefice Gregorio XIII concesse che venisse raffigurato tra i martiri nella cappella del Collegio inglese di Roma, dove gli furono anche dedicate una o due antiche chiese.
La presunta santità di Sant’Edwin è comunque certamente da considerarsi più sicura rispetto a quella di parecchi altri santi sovrani di varie nazionalità venerati dalle Chiese cristiane: infatti Beda, fonte sicuramente attendibilissima in materia, lo definì re giusto e capace, convertitosi alla fede cristiana non prima di una meditata riflessione ed impegnato con tutto il cuore nell’evangelizzazione dei sudditi, senza ricorrere alla forza.
Sua moglie Etelburga, che gli sopravvisse sino all’8 settembre 647 divenendo badessa di Lyming, è talvolta anch’essa venerata come santa, anche se in tono assai minore.
Autore: Fabio Arduino
Martirologio Romano: A Tours nella Gallia lugdunense, ora in Francia, san Venanzio, abate, che, sposatosi in giovane età, si recò alla basilica di San Martino e, rimasto colpito dalla vita dei monaci, con il consenso della moglie scelse di vivere tra loro in Cristo.
Horodok, Ucraina, 14 agosto 1914 – Lviv (Leopoli), Ucraina, 14 ottobre 1949
Martirologio Romano: A Leopoli in Ucraina, beato Romano Lysko, sacerdote e martire, che, durante la persecuzione contro la fede, seguendo costantemente le orme di Cristo, giunse per sua grazia al regno dei cieli.
Roman Lysko nacque il 14 agosto 1914 ad Horodok, nei pressi di Lviv (Leopoli). Diplomato all’Accademia teologica di Lviv, trascorse la sua gioventù con sua moglie al servizio dei giovani. E’ cosa comune nelle Chiese Orientali cattoliche che dei giovani sposati possano essere ordinati sacerdoti. Così avvenne anche per Roman, che il 28 agosto 1941 ricevette l’ordinazione presbiterale per mano del metropolita Sheptytsky, divenendo così sacerdote diocesano dell’Arcieparchia di Lviv degli Ucraini.
Il 9 settembre fu arrestato dal NKVD ed imprigionato a Lviv. Dei testimoni oculari raccontarono che, dopo essere stato torturato, il giovane padre intonò dei salmi con la sua voce possente e venne inseguito murato vivo. Il 14 ottobre 1949 è considerata la data ufficiale della sua morte.
Roman Lysko fu beatificato da Giovanni Paolo II il 27 giugno 2001, insieme con altre 24 vittime del regime sovietico di nazionalità ucraina.
Autore: Fabio Arduino
Andescj, Baviera, 1174 - Trzebnica, Polonia, 15 ottobre 1243
Nata nel 1174 nell’Alta Baviera, fu duchessa della Slesia, sposa di Enrico I detto il Barbuto. La sua condizione nobile non le vietò di vivere a fondo la propria fede, dando prova di profonda devozione ed esprimendo in diversi modi la carità verso gli ultimi e l’intenzione totale di porre tutta la sua persona a servizio degli altri. Provata da diverse sventure familiari e addolorata dalla rivalità tra i due figli, seppe mostrare sempre la mitezza e la saggezza di chi vive un profondo desiderio di pace. Stile che applicò nella vita di corte e nella politica estera. Quando il marito fu fatto prigioniero di guerra ne ottenne la liberazione. Si adoperò per migliorare le condizioni di vita dei carcerati e usò gran parte delle sue rendite per i poveri. Praticò un’austerità personale volta a una mortificazione offerta come segno concreto per chi viveva chiuso nel peccato e nell’egoismo. Principessa e penitente, sposa fedele e madre dolorosa, sovrana giusta e benefica, Edvige morì nel 1243 e subito venerata come santa, sia dai fedeli germanici che da quelli slavi. (Avvenire)
Etimologia: Edvige = ricca guerriera, o fortuna in battaglia, dal tedesco
Martirologio Romano: Santa Edvige, religiosa, che, di origine bavarese e duchessa di Polonia, si dedicò assiduamente nell’assistenza ai poveri, fondando per loro degli ospizi, e, dopo la morte del marito, il duca Enrico, trascorse operosamente i restanti anni della sua vita nel monastero delle monache Cistercensi da lei stessa fondato e di cui era badessa sua figlia Gertrude. Morì a Trebnitz in Polonia il 15 ottobre.
(15 ottobre: Nel monastero di Trebnitz nella Slesia, in Polonia, anniversario della morte di santa Edvige, religiosa, la cui memoria si celebra domani).
I genitori Bertoldo e Agnese, di alta nobiltà bavarese, la preparano a un matrimonio importante, facendola studiare alla scuola delle monache benedettine di Kitzingen, presso Würzburg. E a 16 anni, infatti, Edvige sposa a Breslavia (attuale Wroclaw, in Polonia) il giovane Enrico il Barbuto, erede del ducato della Bassa Slesia. Quattro anni dopo, Enrico succede al padre Boleslao e così lei diventa duchessa.
Questo territorio slesiano fa parte ancora del regno di Polonia, ma si sta germanizzando. I suoi duchi, già dal tempo di Federico Barbarossa (morto nel 1190) gravitano nell’orbita dell’Impero germanico; la feudalità locale è invece di stirpe polacca, come la maggioranza degli abitanti, ai quali però si sta mescolando una forte immigrazione di tedeschi. Edvige mette al mondo via via sei figli: Boleslao, Corrado, Enrico detto il Pio, Agnese, Sofia e Gertrude. E si rivela buona collaboratrice del marito nel difficile governo del ducato: guadagna la simpatia dei sudditi polacchi imparando la loro lingua, promuove l'assistenza ai poveri, come fanno e faranno molte altre sovrane; ma con una differenza: lei vive la povertà in prima persona, giorno per giorno, con le regole severe che si impone, eliminando dalla sua vita tutto quello che può distinguerla da una donna di condizione modesta. A cominciare dall’abbigliamento. I biografi parlano degli abiti usati che indossa, delle calzature logore, delle cinture simili a quelle dei carrettieri.
È poco fortunata con i figli, che non avranno rapporti affettuosi con lei, e che moriranno quasi tutti ancora giovani, tranne Gertrude. Suo marito, Enrico il Barbuto, muore nel 1238, e gli succede il figlio Enrico il Pio, che già nel 1241 viene ucciso in combattimento contro un’incursione mongola presso Liegnitz (attuale Legnica).
Disgrazie in serie, dunque. Ma i biografi dicono che lei le affronta ogni volta senza lacrime. Forse perché è tedesca. E fors’anche perché è molto legata all’ambiente monastico del tempo, con tutto il suo rigore. (Alle molte preghiere e pie letture, Edvige accompagna anche penitenze fisiche durissime). Eppure, quando si ritrova sola, non pensa di “fuggire dal mondo” subito, entrando in monastero. No, prima bisogna pensare ai poveri, come dirà alla figlia Gertrude, non per motivi di buona politica, ma perché i poveri sono “i nostri padroni”. E questo linguaggio richiama «la spiritualità degli Ordini mendicanti e in particolare quella dei Francescani, tra i quali Edvige, negli ultimi anni della sua esistenza, scelse il proprio confessore» (A. Vauchez, La santità nel Medioevo, ed. Il Mulino).
Entra infine nel monastero cistercense di Trebnitz (l’attuale Trzebnica) fondato da lei nel 1202. E qui vive da monaca. Anzi, da monaca superpenitente. Muore anche da monaca, chiedendo di essere sepolta nella tomba comune del monastero. Tedeschi e polacchi di Slesia sono concordi nel chiamarla santa: nel 1262, sotto papa Urbano IV, incomincia la causa per la sua canonizzazione, e nel 1267 papa Clemente IV la iscrive tra i santi. Il corpo sarà in seguito trasferito nella chiesa del monastero.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Oggi un'altra giornata ricchissima. Iniziamo con una intera famiglia martire, molto bella la loro lapide sepolcrale che fa riferimento specifico al vincolo sacramentale del matrimonio ed all'amore che li lega: “Il Signore Onnipotente, che con meriti uguali vi unì nel dolce vincolo del matrimonio, custodisce per sempre il vostro sepolcro. O Catervio, Severina è felice per essersi unita a te: possiate insieme risorgere, con la grazia di Cristo...".
Continuiamo poi ricordando il profeta Osea che per primo ha raffigurato l’alleanza tra Jahvé e Israele, non più modellata, come al Sinai, sulla base di un rapporto ‘politico’ tra due personaggi; ma come una relazione d’amore tra due sposi, con aspetti di comunione, spontaneità, intimità; tema che verrà ripreso dai profeti successivi, sia pure in forme diverse, costituendo un simbolismo efficace anche per il Nuovo Testamento.
Si ricorda poi San Riccardo, vissuto durante lo scisma anglicano, era un marito ed un padre devoto, un insegnante dei giovani che seppe conquistarsi e conservare il forte affetto dei suoi allievi che fu ucciso per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica.
Infine la beata vedova Tarsila, martire della guerra civile spagnola.
m. Tortona (AL), 68 circa
Patronato: Tolentino
La promulgazione da parte della Conferenza Episcopale Italiana del nuovo Rito del Matrimonio contenente, fra i vari formulari proposti, anche le nuove “Litanie dei santi sposi”, ha suscitato in diversi ambiti ecclesiali una riscoperta ed un notevole interesse per quelle coppie di sposi che si sono distinte per la loro particolare santità.
Non presente in tale incompleto elenco, ma comunque supportata da un antichissimo culto, è una famiglia romana composta dai coniugi Flavio Giulio Catervio e Settimia Severina e dal loro figlio Basso. Per riscoprire le poche certezze storiche su questi santi occorre fare un breve viaggio a Tolentino, città a cui è tradizionalmente legato il loro culto.
Qui un’antica chiesa è dedicata proprio a San Catervo, il più celebre dei tre familiari, e la vita di tale edificio sacro presenta tre fasi salienti. La prima, iniziatasi in data anteriore all’anno 1000, arriva sino al 1256, quando i monaci benedettini chiesero all’allora papa Alessandro IV l’autorizzazione per restaurare la chiesa. La seconda fase iniziò dunque dopo tale anno, ma purtroppo non si sono conservati particolari reperti archeologici per poter fare un raffronto con il primitivo edifico. La nuova chiesa sorse con asse orientato in direzione est-ovest, con tre navate in stile romanico ogivale, pilastri cruciformi e presbiterio sito nell’area dell’attuale facciata. Tale costruzione, di cui sussiste una parte nella Cappella di San Catervo, allora cappella della Santissima Trinità, resto pressoché immutata fino al 1820, qualora si pensò di dare un nuovo assetto all’ormai fatiscente edificio. Furono incaricati di tale operazione prima il pittore tolentinate Giuseppe Lucatelli ed in un secondo momento l’architetto maceratese Conte Spada. Questi nel voler dare alla chiesa un nuovo assetto architettonico di tipo neoclassico, decise di cambiarne l’orientamento invertendolo, ponendo il nuovo ingresso ove prima era il presbiterio della chiesa monastica del 1256, di cui resta un grandioso portale sul lato sinistro della chiesa. Il nuovo edificio a tre navate, inglobante tutte le strutture della precedente costruzione, fu realizzato a croce latina.
In fondo alla navata sinistra si realizzò così la Cappella di San Catervo, volta a custodire il grandioso sarcofago, uno tra i più importanti delle marche, ricavato da un unico blocco di marmo e comprendente i busti dei due coniugi. Dall’iscrizione inclusa nella tabula del sarcofago si apprende che Flavio Giulio Catervio appartenne ad una nobile famiglia senatoria, che fu prefetto del pretorio e morì all’età di soli 56 anni. In tale epigrafe si ricorda inoltre, con un formulario intessuto di forme poetiche, impregnate di una fede lucente nella resurrezione, il sacramento matrimoniale: “Il Signore Onnipotente, che con meriti uguali vi unì nel dolce vincolo del matrimonio, custodisce per sempre il vostro sepolcro. O Catervio, Severina è felice per essersi unita a te: possiate insieme risorgere, con la grazia di Cristo, o voi beati, che il sacerdote del Signore, Probiano lavò con l'acqua battesimale e unse con il sacro crisma”.
Tale monumento fu fatto costruire dalla moglie per entrambi. Il sarcofago fu oggetto di ispezione nel 1455 ed in tale occasione ne fu estratto il capo di San Catervo, che venne posto in un reliquiario alla venerazione dei fedeli. Di una successiva apertura nel 1567 esiste una testimonianza documentata e particolareggiata. Furono così rinvenuti i corpi di San Catervo e di suo figlio Basso. La cappella del sarcofago è comunque uno dei pochi residui dell’antico complesso monastico benedettino.
La tradizione vuole che Catervio sia stato il primo evangelizzatore della città di Tolentino e proprio ciò abbia comportato il martirio per lui e la sua famiglia, ma come per tutti i martiri loro contemporanei non è purtroppo possibile reperire ulteriori informazioni e dettagli circa il loro operato, quanto piuttosto sul culto loro tributato.
La figura di San Catervo si è dunque strettamente legata alla città di Tolentino di cui è patrono, sebbene questa sia più conosciuta per il celebre San Nicola. Sebbene un tempo si sia addirittura dubitato sulla reale esistenza storica dei tre santi, la recente ricognizione dei resti sembra invece confermare l’antica tradizione tramandataci dalla Chiesa e dall’affetto popolare.
Nonostante la maggior rilevanza dei festeggiamenti per San Nicola da Tolentino, come dice il detto “se fa tutto per Nicò e niente per Catè”, San Catervo e la sua famiglia conservano comunque un posto speciale nel cuore di tutti i tolentinati.
Un’improbabile leggenda piemontese attribuisce a questa santa famiglia anche l’evangelizzazione della città di Tortona, di cui sarebbero stati i protomartiri, verso l’anno 68, quando appena giungevano sulle Alpi Cozie altri evangelizzatori quali Priscilla, Elia, Mileto, Marco e Quinto Metello, tutti sfuggiti alla persecuzione neroniana di quattro anni prima. Il Massa, celebre agiografo della santità pedemontana, ricorda Catervio come un uomo ormai centenario. L’intera famiglia si prodigò con nell’evangelizzazione di Tortona, divenendo preziosi collaboratori del primo vescovo San Marciano o Marziano. Precedendolo nel versare il loro sangue per Cristo, divennero così i primi martiri della città e dell’intero Piemonte geograficamente inteso. Questa versione è stata forse ideata per giustificare la presenza nella città piemontese di alcune reliquie dei santi in questione.
Autore: Fabio Arduino
Israele, VIII sec. A.C.
San Osea è il profeta ebraico Hoseah (=salvato dal Signore), vissuto nell'VIII secolo prima di Cristo. Figlio di Beerì, Osea è originario del regno del nord, Osea inizia la sua predicazione sotto Geroboamo II e la prosegue sotto i successori di questo. Il dramma personale di Osea, che lo spinge alla sua azione profetica è raccontato nei primi tre capitoli del libro della Bibbia che porta il suo nome. Probabilmente Osea aveva sposato una donna che amava e che l'aveva abbandonato, ma egli ha continuato ad amarla e l'ha ripresa dopo averla messa alla prova. E' evidente il parallelismo tra Dio e il popolo d'Israele, che come una donna infedele ha provocato le ire del suo sposo divino. Osea condanna le classi dirigenti di Israele, i re che hanno fatto scelte laiche e mondane e i sacerdoti che hanno abbandonato lo zelo al loro ministero, conducendo il popolo alla rovina. Egli tuona contro le ingiustizie e le violenze, ma soprattutto contro l'infedeltà religiosa, un messaggio vecchio di quasi tre milleni, ma sempre attuale.
Etimologia: Osea = salvato dal Signore, dall'ebraico
Martirologio Romano: Commemorazione di sant’Osea, profeta, che, non solo con le parole, ma anche con la vita, mostrò all’infedele popolo di Israele il Signore come Sposo sempre fedele e mosso da infinita misericordia.
Il ‘Martirologio Romano’, ricorda al 17 novembre il profeta Osea, l’ebraico Hoseah, il cui nome significa “salvato dal Signore”.
Osea apre nella Bibbia la serie dei cosiddetti “Profeti Minori”, ma in realtà la sua è una testimonianza di alto profilo e si basa su un’esperienza personale e familiare, che viene presa a simbolo religioso per tutto il popolo ebraico.
Contemporaneo del profeta Amos, Osea visse e operò nel regno settentrionale d’Israele, di cui era anche originario, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C.; più precisamente predicò al popolo la Parola di Dio, in un periodo di tempo racchiuso tra il 750 e il 754 a.C., mentre si maturava la rovina di quel regno scismatico (721 a.C.) che si era separato dal regno di Giuda, dopo la morte di Salomone (931 a.C.).
Figlio di Beeri, Osea scrisse i suoi oracoli profetici al tempo di Ezechia re di Giuda e di Geroboamo II re d’Israele; il libro omonimo consta di 14 capitoli, i cui primi tre, sviluppano la sofferta storia personale e familiare del profeta.
Dietro ordine di Dio, egli sposò una prostituta di nome Gomer, figlia di Diblaim (forse era una sacerdotessa dei culti della fertilità a sfondo sessuale, del dio Baal dei cananei), dalla quale ebbe tre figli dai nomi simbolici, il primo Izreel, dal nome della città dove abitavano d’estate i re d’Israele; la seconda figlia ebbe il nome chiesto da Dio di “Non-amata” e il terzo il nome sempre dettato da Dio, di “Non-popolo-mio”.
E la situazione familiare di Osea sarà il filo conduttore di tutto il Libro, perché la moglie Gomer, pur essendo amata dal profeta, dopo qualche tempo riprese a prostituirsi con numerosi amanti, abbandonando il marito ed i figli; i cui nomi simbolici riflettono la dolorosa situazione familiare.
Ma l’amore di Osea per la moglie infedele, gli fa superare il furore che ne scaturiva, convincendo Gomer a ritornare in famiglia dove c’era amore e perdono; nel capitolo 3 egli descrive così la ricongiunzione:
[Il Signore mi disse: “Va’ di nuovo, ama la donna amata da suo marito, benché adultera, come il Signore ama i figli d’Israele, benché essi si volgano verso altri dei e amino le schiacciate di uve passe”. Io dunque me la comprai per quindici pezzi d’argento e una misura e mezza di orzo. Poi le dissi: “Per un lungo periodo rimarrai al tuo posto con me, non ti prostituirai e non sarai di un altro e neppure io verrò da te”.
Perché per un lungo periodo i figli d’Israele saranno senza re e senza principe, senza sacrificio e senza stele… Dopo ciò i figli d’Israele si convertiranno, cercheranno il Signore loro Dio e Davide loro re, trepidanti accorreranno al Signore e ai suoi beni, alla fine dei giorni].
È evidente il parallelismo tra Dio e il popolo d’Israele, che come una moglie infedele ha provocato le ire del suo Sposo divino; per la prima volta nella Bibbia, Dio viene esaltato come lo Sposo del suo popolo, perché l’alleanza che lo lega ad esso, è un patto d’amore.
Il profeta Osea nei capitoli successivi, condanna le classi dirigenti d’Israele, i re che hanno fatto scelte laiche e mondane e i sacerdoti che hanno abbandonato lo zelo, trascurando il loro ministero, portando il popolo alla rovina.
Egli si scaglia contro le violenze e le ingiustizie, soprattutto contro l’infedeltà religiosa, ma poi il profeta, con pagine di eccezionale vigore, descrive l’amore di Dio con mirabili accenti di intimità e tenerezza, che sebbene tradito, continua vivo e pieno di sollecitudine, al fine di ricondurre a sé il popolo infedele.
A partire da Osea, la raffigurazione dell’alleanza tra Jahvé e Israele, non sarà più modellata, come al Sinai, sulla base di un rapporto tra un re e un suo vassallo, cioè un rapporto ‘politico’ tra due personaggi; viene invece rappresentata come una relazione d’amore tra due sposi, con aspetti di comunione, spontaneità, intimità; tema che verrà ripreso dai profeti successivi, sia pure in forme diverse, costituendo un simbolismo efficace anche per il Nuovo Testamento.
Al di là del simbolismo, con cui Osea ha scritto il suo oracolo profetico, per richiamare l’infedele popolo d’Israele, gli studiosi sono concordi nel ritenere vere le disavventure familiari del profeta, che egli trasfigura facendole diventare una parabola dell’intera vicenda del popolo, che di fronte all’amore fedele da parte del Signore, la “sposa” Israele, aveva risposto con l’infedeltà dell’idolatria cananea, definita appunto come prostituzione e adulterio.
Autore: Antonio Borrelli
Llandiloes, Galles, 1537 circa – Wrexham, Galles, 17 ottobre 1584
Martirologio Romano: A Wrexham in Galles, san Riccardo Gwyn, martire, che, padre di famiglia e maestro di scuola, professò la fede cattolica e, arrestato per aver persuaso altri ad abbracciarla, dopo lunghi tormenti, invitto nella fede, fu impiccato sul patibolo e sventrato ancora vivo.
Richard Gwyn nacque a Llandiloes, nel Montgomeryshire in Galles, verso il 1537. Iscritto al St John’s College di Cambridge, dovette ritirarsi dopo soli due anni per carenze finanziarie. Tornato nella terra natia, fu maestro ad Overton nel Clwy. Qui si sposò ed ebbe sei figli, tre dei quali morirono ben presto. Minacciato di multa per non frequentare la parrocchia anglicana del luogo, si convertì per un certo periodo a tale confessione imposta dall’Atto di Uniformità del 1559.
In seguito però si pentì e tornò al cattolicesimo. Si trasferì ad Overstock, ove aprì una scuola. Nel 1579 fu arrestato in quanto cattolico presso Wrexham, ma riuscì fortunosamente a fuggire. L’anno successivo, quando il Consiglio della Corona invitò i vescovi ad impegnarsi nell’arresto di tutti gli insegnanti cattolici, capaci di influenzare le scelte delle giovani generazioni, Riccardo fu nuovamente arrestato ed imprigionato nel castello di Ruthim. Rifiutando però di firmare l’atto di sottomissione, fu portato nella chiesa del luogo, ove fece tanto rumore da coprire le parole del predicatore. Per punizione fu allora messo alla gogna e multato. Una volta rilasciato, non fu in grado di pagare le multe per la mancata frequentazione della chiesa e perciò arrestato per l’ennesima volta.
Condotto allora in giudizio insieme ad altri dissidenti, fu stimolato mediante torture a rivelare i nomi dei cattolici ancora presenti sul territorio. Durante la prigionia scrisse parecchie poesie in lingua gallese, assai polemiche e dal tono alquanto amaro, per esortare i propri compatrioti a restare fedeli all’antica “madre Chiesa” ed attaccare lo scisma anglicano ed i suoi seguaci. Fu infine condotto per l’ottava volta in giudizio a Wrexham, ove fu accusato di aver ricondotto una persona alla fede cattolica e di riconoscere il primato papale. La prima accusa secondo la legge del 1581 era considerata reato degno di morte. Le prove contro di lui erano state falsificate, ma fu comunque condannato a morte per non voler riconoscere la supremazia regale.
Sua moglie, che con uno dei figli era stata ammonita a non seguire l’esempio del marito, si dichiarò invece a seguirne la medesima sorte. Sul patibolo Riccardo ribadì ancora di riconoscere Elisabetta come legittima regina inglese, ma non quale Capo della Chiesa d’Inghilterra, poi fu impiccato, calato a terra e squartato. Ciò avvenne a Wrexham, nel Galles, il 17 ottobre 1584. Il curatore delle sue poesie affermò: “Nonostante i suoi momenti di debolezza, aveva un carattere veramente amabile, era un marito ed un padre devoto, un insegnante dei giovani che seppe conquistarsi e conservare il forte affetto dei suoi allievi”.
Ben quaranta martiri di Inghilterra e Galles di quel periodo, Cuthbert Mayne e 39 compagni, tra i quali appunto Richard Gwyn, furono canonizzati da Papa Paolo VI il 25 ottobre 1970, nell’auspicio che il sangue dei martiri potesse dare frutti di dialogo e di unità con i fratelli cristiani separati.
Autore: Fabio Arduino
Collana, Spagna, 8 maggio 1861 – Algemesì, Spagna, 17 ottobre 1936
Martirologio Romano: Nella città di Algemesí nel territorio di Valencia ancora in Spagna, beata Tarsilla Córdoba Belda, martire, che, madre di famiglia, sempre nella stessa persecuzione fu accolta da Cristo nella gloria.
Tarsila Cordoba Belda, fedele laica dell’arcidiocesi di Valencia, nacque a Collana in Spagna l’8 maggio 1861 e ricevette il battesimo sette giorni dopo nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena.
Dal suo matrimonio, celebrato il 19 gennaio 1884 nella chiesa parrocchiale, nacquero due figli che però morirono in gioventù a causa di varie malattie. Inoltre il 26 marzo 1922 rimase vedova, fattore che la ispirò a dedicarsi ancor di più all’apostolato ed al servizio di Dio e dei poveri. A tal fine aderì all’Azione Cattolica Spagnola.
Allo scoppio della guerra civile e della feroce persecuzione religiosa che attraversò la Spagna negli anni ’30 del XX secolo, Tarsila occultò delle suppellettili della chiesa a casa sua e curò delle suore nascoste. Scoperta, fu uccisa il 17 ottobre 1936 presso Algemesì.
Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001 elevò agli onori degli altari ben 233 vittime della medesima persecuzione, tra le quali la Beata Tarsila Cordoba Belda, che viene festeggiata nell’anniversario del suo martirio.
Autore: Fabio Arduino
Martirologio Romano: A Évreux sempre in Francia, sant’Aquilino, vescovo, che, come si tramanda, era un soldato dedito a opere di bene e, fatto con il consenso della moglie voto di continenza, venne, infine, eletto vescovo di questa sede.
Nato verso il 610 o 620 a Bayeux da famiglia nobile, prese moglie e andò in guerra sotto il comando di Clodoveo II. Durante la sua lunga assenza, la sposa fece voto di osservare la continenza con lui per un anno se lo avesse riavuto sano e salvo. Al suo ritorno tutti e due si impegnarono definitivamente col voto di castità. Aquilino fissò allora la sua dimora a Évreux dove la fama della sua virtù gli valse la successione a Eterno sul seggio vescovile. Appare fra i vescovi che assistettero alle esequie di sant'Ouen (Audoenus) a Rouen nel 683 e al concilio tenuto nella stessa città nel 688-89. Morì verso il 695. La sua festa, fissata al 19 ottobre, è a volte menzionata al 18 dello stesso mese, o al 15 febbraio, o al 18 luglio. Vi è pure confusione nel Breviario di Évreux ove sono menzionati due ss. Aquilini. La sua vita, scritta nel sec. XII da un monaco benedettino, è senza dubbio un rimaneggiamento allungato di una Vita anteriore. A lui furono dedicate molte chiese, una delle quali, nei sobborghi, divenne la cappella del seminario di quella diocesi.
Autore: Gérard Mathon Fonte: Enciclopedia dei Santi
Era molto devota di san Varo, un martire egiziano e principio del IV secolo. Dopo la morte del marito, un ufficiale egiziano, chiese al preside della provincia di poterlo seppellire in Palestina sua terra natale. Ma invece della salma del marito, portò le reliquie di san Varo e le seppellì a Syre o Edra, sul monte Tabor, nella tomba della di lei famiglia.
In seguito, a causa dei numerosi pellegrini e ammalati che accorrevano a venerare le reliquie del santo martire, Cleopatra decise di edificare una grande cappella. Qualche anno dopo le morì anche il figlio e lo seppellì accanto alle reliquie di san Varo. Trascorsero altri sette anni nell'esercizio della carità e della povertà cristiana.
Alla sua morte venne sepolta accanto a san Varo e al figlio, nel tempio che aveva costruito.
E' ricordata il 19 ottobre.
Fonte: Terra Santa
Confesso che raramente ho ammirato le vite e le opere dei tanti santi Re ed Imperatori, stavolta ho avuto modo di ricredermi con l'Imperatore Carlo I d'Asburgo. Veramente un grande uomo, bell'esempio di sposo e genitore.
Persenburg, Austria, 17 agosto 1887 – Funchal, Madeira, Portogallo, 1 aprile 1922
Nacque nel 1887 in Austria, Carlo ebbe un grande amore per la Santa Eucaristia e per il Cuore di Gesù. Nel 1911 sposò la Principessa Zita di Borbone e, mentre imperversava la Prima Guerra Mondiale, con la morte dell'Imperatore Francesco Giuseppe, divenne Imperatore d'Austria. Anche questo compito venne visto da Carlo come una via per seguire Cristo: nell'amore per i popoli a lui affidati, nella cura per il loro bene e nel dono della sua vita per loro.
Emblema: Corona, Scettro, Globo, Spada
Nella pianura del Danubio, cavalcava agile sul suo cavallo bianco, splendido nella sua divisa, durante le manovre militari. Colto e affabile, soldati e ufficiali lo sentivano fratello. Al mattino e alla sera, i suoi uomini potevano trovarlo nella sua tenda o davanti al Tabernacolo, raccolto in preghiera con la fede semplice e forte di un bambino.
Era Carlo d’Asburgo, principe d’Austria.
Il nonno suo era fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe. Il papà era Ottone d’Asburgo, la mamma era Giuseppina di Sassonia. Lui era nato il 17 agosto 1887 a Persenbeug sul Danubio. La mamma, ricca di fede e di carità cristiana, sottrasse il piccolo agli istitutori dello Stato e lo educò personalmente e affidandolo ad ottimi maestri cattolici.
Cresceva come un bambino bello e dolcissimo, limpido e buono. L’ambiente di corte, in cui viveva, raffinato e frivolo, neppure lo sfiorò.
Adolescente, circondato da cento occasioni di male, si distingueva per la purezza e la generosità.
Intelligentissimo, tra i compagni del liceo di Vienna, si faceva amare per la sua bontà. Molti pensavano a divertirsi; lui, Carlo, aveva una sola passione: l’adorazione eucaristica davanti al Tabernacolo e la Comunione quotidiana. Era un giovane affamato di Dio.
Un giorno, Miss Casey, addetta al suo guardaroba, si accorse che nell’armadio c’erano solo più due camicie consunte. Le altre, le più belle, sua Altezza le aveva regalate ad alcuni bambini poveri, suoi piccoli amici. Gli orfani, a causa delle guerre o di epidemie, erano i suoi prediletti.
Principe ereditario
A 16 anni, intraprese la carriera militare. Viveva come uno qualsiasi dei suoi soldati. Sapeva comandare e ubbidire. Nelle ore di libertà, conversava con soldati e ufficiali, sovente interessati solo ad avventure, ma lui parlava loro di Gesù e dell’amicizia con Lui.
Frequentò l’Università a Praga, studioso e appassionato alle lingue, in primo luogo a quelle parlate nell’Impero d’Austria. Durante le manovre militari del 1907, ormai ufficiale d’ordinanza dello zio Francesco Ferdinando, principe ereditario, si dimostrò un capo perfetto nel talento militare e nel senso tattico. Aveva 20 anni, parlava quasi una decina di lingue, era ammirato da tutti e da non poche principesse d’Europa e capitava spesso di vederlo pregare in pubblico, inginocchiato per terra come un fratino in un convento.
Alla corte di Vienna, aveva conosciuto la principessa Zita di Borbone-Parma, nata a Lucca nel maggio del 1892. Tra i due sbocciò l’amore. Nell’aprile del 1911, si iniziò a parlare delle nozze. In occasione del fidanzamento ufficiale, Zita e la madre andarono in udienza dal Papa Pio X. Il quale, accennando a Carlo, lo chiamò “principe ereditario”. Zita rettificò: «Non è lui l’erede al trono». Pio X non se ne diede per inteso e continuò a parlare di Carlo come del principe ereditario.
Un’altra volta, Pio X affermò: «È un dono della Provvidenza di Dio alla Casa d’Austria».
Sotto la guida del gesuita Padre Andlau, Carlo e Zita si prepararono al sacramento del matrimonio, pregando e facendo opere di penitenza e di carità, mentre attorno a loro volteggiavano balli e si tessevano avventure. Il 21 ottobre 1911, nel castello di Schwarzau, Mons. Bisletti, mandato dal Papa, benedisse le nozze di Carlo e di Zita.
Terminato il rito, Carlo disse alla sua sposa: «E ora dobbiamo aiutarci insieme per raggiungere il Paradiso».
Subito partirono per Marianzell, il santuario mariano dell’Austria, dove si affidarono alla Madonna. Negli anni appresso, vennero i primi loro bambini, accolti come dono di Dio.
Una sera del maggio 1914, Francesco Ferdinando invitò a cena, nella reggia di Vienna, Carlo e la sua famiglia. Il principe ereditario gli disse: «So che tra poco mi uccideranno. Ti affido i documenti di questa scrivania». Il 28 giugno, Francesco Ferdinando cadeva a Sarajevo e Carlo diventava l’erede al trono.
Costruttore di pace
La guerra iniziava su tutti i fronti d’Europa. Due anni dopo, alla morte di Francesco Giuseppe, il 21 novembre 1916, Carlo d’Asburgo saliva al trono imperiale. Andò di nuovo a Marianzell e là cominciò a regnare dinanzi a Maria Santissima.
Da quei giorni, ebbe un solo pensiero: la pace. Nessuno come lui ascoltò il Papa Benedetto XV nel ricercare la pace. Ma le proposte del Papa fallirono. Carlo si rivolse a Guglielmo di Germania per indurlo alla pace. Questi si illudeva ancora di vincere la guerra. Anzi, propose a Carlo di lasciare passare in Austria Lenin, esule in Svizzera, perché andasse in Russia ad abbattere con la rivoluzione comunista l’impero dello Zar, quindi assicurare la fine delle ostilità sul fronte orientale. Carlo inorridì: «Guai se il comunismo dovesse trionfare: sarebbe il danno più grave all’intelligenza e alla fede cristiana». I fatti gli avrebbero dato ragione.
Si rivolse allora con tutti gli sforzi possibili alle altre nazioni in guerra. Erano chiamate “le missioni Sisto”, dal nome di suo cognato, Sisto di Borbone che faceva da intermediario. Occorreva arrivare alla pace. Ma il nemico numero uno dei tentativi di pacificazione era la massoneria che aveva giurato di far sparire dall’Europa quell’Imperatore cattolico che viveva la sua fede in chiesa come in politica e che non aveva mai permesso che una sola loggia massonica si aprisse nei suoi Stati.
«È tra le più grandi personalità di tutti i tempi, affermava Stefan Zweig. Se si fossero seguite le sue idee, l’Europa non avrebbe conosciuto in seguito le più aspre dittature».
Diceva l’anglicano Gordon: «È capace di pensare con undici menti e di amare con undici cuori, uno per ogni nazionalità del suo Impero. Carlo è sempre uno nella fede e nella vita: fede e vita in lui si fondono in uno fino a farsi indistinguibili nell’esercizio della regalità». Benedetto XIV assicurava: «Carlo d’Austria è un santo!».
Il novembre del 1918 segnò il crollo dell’Impero. Nelle città dei suoi Stati era la rivolta. Il 12 novembre a Vienna si proclamava la repubblica. Tutto avveniva secondo i piani della massoneria. L’11 novembre, Carlo aveva abdicato al trono. Cominciava per lui l’esilio. Il 24 marzo 1919, riparava in Svizzera.
L’esule e il martire
Allora la massoneria tentò il ricatto, proponendo al sovrano la restituzione della corona se fosse venuto a patti con essa. Carlo rispose: «Come principe cattolico, non ho nessuna risposta da darvi». Quando quelli se ne andarono, aggiunse: «Ora, ogni mia cosa avrà cattiva riuscita».
Nel mondo, vennero diffuse contro di lui calunnie ed oltraggi. Carlo rispose sempre da cristiano.
Nel 1920, Mons. Eugenio Pacelli, nunzio apostolico a Monaco di Baviera, ebbe un giorno l’occasione di viaggiare in treno con lui. Al ritorno, il nunzio andò in cappella dove disse ad alta voce: «Ti ringrazio, o Signore, di avermi fatto incontrare così grande anima!».
Nel 1921, seguirono due tentativi da parte del sovrano di riprendere la corona d’Ungheria a cui non aveva mai rinunciato. Ma il 24 ottobre, insieme a Zita, fu fatto prigioniero dalle truppe di Horty, il reggente di Ungheria e consegnato agli Inglesi. Caricati su una nave, attraverso il Danubio, il Mar Nero, il Mediterraneo, Carlo e Zita furono portati nell’isola di Madera, in mezzo all’Atlantico. Ora aveva perso davvero tutto, il trono, i beni temporali, povero tra i poveri. Solo il Papa pensava a lui e ai suoi familiari.
A Madera, finalmente poterono raggiungerli i loro bambini, il più grande dei quali aveva solo nove anni. Nella casa dove abitavano, Carlo aveva avuto il permesso di avere una cappellina con Gesù Eucaristico.
Chi voleva trovare l’Imperatore doveva cercarlo là, davanti al tabernacolo.
Maturò un’idea: offrire la vita per il bene dei suoi popoli. Guardando il Santuario della Madonna di Madera, offrì la vita come vittima con Gesù. Qualche giorno dopo, sempre più a corto di mezzi, lasciò la casa per trasferirsi in una povera abitazione priva di tutto, sopportando, ma diffondendo luce e gioia attorno a sé: «Così Dio vuole; perché preoccuparmi? Tutto per Lui!».
Il 9 marzo 1922, Carlo prese un raffreddore e fu subito polmonite: gravissimo. Sofferenze fortissime. La tosse lo squassava. Le cure sommarie, il vitto scarso. L’unico ad essere sereno, quasi felice era lui, Carlo, il sovrano dalla fede granitica e dolce. Zita raccoglieva una per una le ultime parole del suo sposo:
«Adesso voglio dirti che ho sempre cercato di conoscere la volontà di Dio e di eseguirla nel modo più perfetto». «Io devo ancora soffrire tanto affinché i miei popoli si ritrovino ancora tra loro... Gesù, proteggi i nostri bambini... ma falli piuttosto morire che commettere un solo peccato mortale». «Gesù sia fatta la tua volontà».
Pregavano insieme, Carlo e Zita, con il Rosario e le litanie alla Madonna. Cantavano il Te Deum in ringraziamento a Dio per la croce posatasi sulle loro spalle. E Carlo era morente!
1° aprile 1922. Il cappellano gli amministrò l’Unzione degli Infermi. Carlo volle avere vicino il figlioletto Ottone:
«Desidero che veda come muore un cattolico». Il sacerdote espose il Santissimo Sacramento nella stanzetta. Carlo non finiva più di adorarlo: «Gesù, io confido in Te. Gesù, in Te vivo, in Te muoio. Gesù io sono tuo, nella vita e nella morte. Tutto come vuoi Tu».
Il sacerdote gli diede la Comunione eucaristica, come Viatico per l’eternità. Il sovrano si raccolse sereno, ilare di un’intima gioia. Zita gli disse: «Carlo, Gesù, viene a prenderti».
Rispose: «Oh sì, Gesù, vieni». Poi ancora: «Oh, Gesù, Gesù!».
Erano le ore 12 e ventitré minuti. Carlo d’Austria, 35 anni appena, contemplava Dio. Il medico che lo curava, miscredente, esclamò: «Alla morte di questo santo, devo ritrovare la fede perduta». E si convertì. Da tutta l’isola vennero a rendergli omaggio. Ai funerali, lo seguirono 30 mila persone.
Il 3 ottobre 2004, Papa Giovanni Paolo II, con la beatificazione in San Pietro a Roma, elevava alla gloria degli altari Carlo d’Asburgo, l’Imperatore che dal trono d’Austria, attraverso la via regale della Croce di Cristo, ha scalato la vetta più sublime: la santità.
Autore: Paolo Risso
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Carlo Francesco Giuseppe di Asburgo Lorena, nacque nel castello di Persenburg (Austria) il 17 agosto 1887, dall’arciduca Ottone d’Austria e dall’arciduchessa Maria Giuseppina di Sassonia; ed era pronipote dell’imperatore Francesco Giuseppe I (1830-1916).
La buona e devota madre, influenzò fortemente l’animo del giovane principe; ebbe una formazione umanistica sotto la guida di eccellenti precettori; poi proseguì i suoi studi presso il famoso “Schottengymnasium” dei Benedettini di Vienna, dove dai compagni veniva chiamato ‘arcicarlo’.
Seguendo le tradizioni della dinastia, finiti gli studi liceali, Carlo divenne ufficiale di cavalleria; uomo di viva intelligenza e dotato di un’enorme memoria, ricevette una formazione universitaria e l’istruzione di Stato Maggiore; fu dislocato in piccole guarnigioni della Baviera e della Galizia e poi a Vienna.
Sposò nel 1911 la principessa Zita di Borbone - Parma, dalla loro unione nacquero cinque figli maschi e tre figlie. Per la serie di disgrazie familiari che colpì la dinastia di Francesco Giuseppe, il pronipote Carlo venne a trovarsi in linea di successione, ad essere inaspettatamente erede al trono imperiale.
Nel 1915 l’anziano imperatore cercò di introdurre Carlo negli affari di governo; senza coinvolgerlo però in settori essenziali e vitali. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale, comandando il XX Corpo dei Cacciatori imperiali “Edelweiss”, dimostrando le sue capacità militari e di coraggio fisico-morale; poi gli fu dato il comando della XII Armata in Galizia, poi ancora quello delle Armate contro i russi diretti da Brusilov, la cui offensiva venne fermata.
Dopo l’entrata in guerra della Romania, Carlo vinse la battaglia di Hermannstadt e si accingeva a conquistare anche Bucarest; le sue qualità militari gli vennero riconosciute dal suo Capo di Stato Maggiore, il prussiano Hans von Seeckt, che lo considerava un bigotto.
Il 21 novembre 1916 morì l’imperatore Francesco Giuseppe I e Carlo in piena Guerra Mondiale, divenne imperatore d’Austria (Carlo I) e re d’Ungheria (Carlo IV).
Sin da fanciullo aveva dimostrato una particolare inclinazione verso la religione e la preghiera, si sentiva chiamato alla carità per il prossimo e fin da ragazzo raccoglieva soldi per i poveri. Da giovane ufficiale in Galizia, cercò sempre con successo di elevare la vita morale dei suoi soldati, i quali vedevano in lui il modello dell’uomo cattolico.
I suoi principi religiosi lo portarono, da imperatore, a sostituire il feldmaresciallo Conrad, perché agnostico e che all’età di 64 anni aveva sposato una donna divorziata, inoltre aveva usato indiscriminatamente le corti marziali, alienando i cechi dalla Casa d’Austria.
Benché fornito di ottima preparazione militare, fu l’unico fra i belligeranti ad accogliere le iniziative di pace di papa Benedetto XV; del resto sin dall’inizio del suo governo era deciso a riportare la pace ai suoi popoli.
Intraprese varie iniziative di pacificazione con le altre potenze, senza riuscire a prevalere però nella cerchia dei generali e statisti tedeschi; non andarono in porto nemmeno due tentativi di pace separata, a causa della fiera resistenza del governo italiano e che si seppero poi in giro.
Così da parte degli alleati, da parte tedesca e da parte di austriaci pangermanici, fu imbastita una enorme propaganda contro il giovane sovrano, il quale con calunnie venne accusato di essere un debole, un donnaiolo, incompetente, ubriacone e molto dipendente dalla volontà della moglie ‘italiana’.
Non riuscì a realizzare una riforma costituzionale dello Stato in forma confederale, per l’opposizione dei nazionalisti austro-pangermanisti e dei circoli governanti ungheresi, capeggiati dal conte Tisza, i quali si rifiutarono in modo assoluto, di dare delle concessioni agli oltre otto milioni di non magiari, presenti in Ungheria.
Attorno a sé non trovò nessun uomo politico, disposto ad appoggiare i suoi piani di riforma, anzi il ministro degli esteri conte Czernin, ligio alla prepotenza germanica, entrò ben presto in piena divergenza con il suo sovrano. L’unico consigliere politico di cui dispose, il conte Polzer-Hoditz, divenne bersaglio e vittima di una ben orchestrata campagna denigratoria.
Il 4 novembre 1918, a seguito del crollo militare sul fronte italiano, si firmò l’armistizio con l’Italia e come conseguenza la monarchia danubiana decadde e in Austria, il 12 novembre, venne proclamata la Repubblica Austriaca. Carlo si ritirò dapprima in Ungheria, rinunciando ad ogni partecipazione agli affari di Stato, ma senza abdicare come sovrano; poi fino al 24 marzo 1919 visse con la famiglia nel castello di Eckartsan presso Vienna, da dove dovette trasferirsi, sotto protezione britannica in Svizzera; ritenendosi fedele al giuramento fatto all’incoronazione di re dell’Ungheria, fece due tentativi di riprendere il potere in questo Stato, ambedue nel 1921.
Ma essi fallirono per l’ostilità di alcune potenze della Piccola Intesa, contrarie ad una restaurazione, nonostante le simpatie verso la sua persona, mostrate dalla Francia e dalla Romania; inoltre il reggente d’Ungheria Nicola von Horthy, si mise contro il re legittimo, nonostante il giuramento che lo legava al sovrano esiliato.
I tentativi di riprendere il trono, furono espletati per sua volontà, senza usare la forza militare, risparmiando così un alto costo di vite umane; tale atteggiamento gli costò la corona.
Fu fatto prigioniero dal governo del reggente Horthy e consegnato agli inglesi, i quali lo condussero insieme alla moglie Zita ed ai figli a Funchal nell’isola portoghese di Madeira. Senza risorse economiche, la famiglia dovette vivere in uno stato precario, lasciato presto l’albergo che li ospitava, si sistemarono in una villa isolata denominata ‘Villa Quinta do Monte’, che non poteva essere riscaldata.
A causa del clima umido e freddo del monte, Carlo si ammalò di una complicata polmonite; il suo cuore già debole non superò la malattia e quindi morì il 1° aprile 1922; venne sepolto nel santuario di ‘Nossa Senhora do Monte’.
Sia nella vita privata che in quella pubblica, Carlo aveva cercato in modo sempre più perfetto di ubbidire alle leggi di Dio e della Chiesa, vivendo in modo straordinario le virtù cristiane. Con coraggio straordinario soppresse il duello, disposizione che lo rese fortemente impopolare negli ambienti militari; unito da devozione filiale alla persona del Sommo Pontefice, dimostrava una ubbidienza spirituale al suo magistero.
Dotato di una fortissima coscienza di responsabilità sociale, conduceva anche una vita ricca di preghiera che ne tratteggiava l’ascetica. Divenuto sovrano, soppresse le manifestazioni sfarzose della vita di corte, abolì i supplementi per le cariche supreme della corte imperiale-reale, introducendo uno stile di vita decisamente sobrio.
Tutta una serie di iniziative sociali a favore dei suoi sudditi, specie i più poveri, furono interrotte per la caduta della monarchia, ma anche nella condizione di esiliato, divenne popolare per il suo senso della giustizia e per la cordialità con i dipendenti, certamente non usuale nella severa corte asburgica.
Ultimo sovrano della duplice monarchia austro-ungarica, ne dovette subire il crollo, pur essendo tanto diverso dai suoi predecessori, per la sua religiosità, dirittura morale, visione sociale e riforma di uno Stato assolutista in uno confederale.
La Radio Vaticana, il 3 novembre 1949 annunziava l’apertura del processo di beatificazione, gli atti furono consegnati alla Congregazione dei Riti il 22 maggio 1954; a maggio 2003 sono state riconosciute le ‘virtù eroiche’ e quindi il titolo di venerabile.
E' stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004.
Autore: Antonio Borrelli
Note: Causa di Canonizzazione: www.emperorcharles.org
Sito ufficiale della Gebetsliga in Italia: www.beatocarloabrescia.it
Etimologia: Celina = abitatore del cielo, dal latino
Martirologio Romano: Presso Laon sempre in Francia, santa Cilinia, madre dei santi vescovi Princípio di Soissons e Remigio di Reims.
Scarse e leggendarie sono le notizie intorno a Celina, nota soprattutto perché fu la madre di s. Remigio, vescovo di Reims. Secondo il racconto dello pseudoFortunato, ripreso e ampliato più tardi da Incmaro di Reims, Celina dette miracolosamente alla luce Remigio, perché ormai in età assai avanzata; subito dopo rese la vista all'eremita Montano, che per tre volte aveva profetizzato l'avvento del santo vescovo, spalmando con alcune gocce di latte i suoi occhi senza luce. L'anno 458 è il terminus post quem si deve porre la morte della santa; fu sepolta là dove era vissuta, nei pressi di Laon, probabilmente a Cerny; ma le sue reliquie andarono distrutte durante la Rivoluzione francese.
Il suo culto a Laon e a Reims nacque, secondo le fonti, assai tardi. Nel Martirologio Romano è iscritta al 21 ottobre, giorno in cui si celebra la sua festa a Reims.
Autore: Roger Desreumaux Fonte: Enciclopedia dei Santi
Ma Giovanni Paolo II non era sposato direte Voi! Ma come non inserirlo qui? E' certamente quello che più di tutti ha contribuito alla spiritualità coniugale e familiare, alla teologia del corpo sviluppata durante le sue famosissime catechesi sull'amore umano, la sua esortazione post sinodale Familiaris Consortio, la sua lettera apostolica "lettera alle Famiglie" e la "lettera alle donne".
Wadowice, Cracovia, 18 maggio 1920 - Vaticano, 2 aprile 2005
(Papa dal 22/10/1978 al 02/04/2005 ).
Nato a Wadovice, in Polonia, è il primo papa slavo e il primo Papa non italiano dai tempi di Adriano VI. Nel suo discorso di apertura del pontificato ha ribadito di voler portare avanti l'eredità del Concilio Vaticano II. Il 13 maggio 1981, in Piazza San Pietro, anniversario della prima apparizione della Madonna di Fatima, fu ferito gravemente con un colpo di pistola dal turco Alì Agca. Al centro del suo annuncio il Vangelo, senza sconti. Molto importanti sono le sue encicliche, tra le quali sono da ricordare la "Redemptor hominis", la "Dives in misericordia", la "Laborem exercens", la "Veritatis splendor" e l'"Evangelium vitae". Dialogo interreligioso ed ecumenico, difesa della pace, e della dignità dell'uomo sono impegni quotidiani del suo ministero apostolico e pastorale. Dai suoi numerosi viaggi nei cinque continenti emerge la sua passione per il Vangelo e per la libertà dei popoli. Ovunque messaggi, liturgie imponenti, gesti indimenticabili: dall'incontro di Assisi con i leader religiosi di tutto il mondo alla preghiera al Muro del pianto di Gerusalemme. Così Carol Wojtyla traghetta l'umanità nel terzo millennio. La sua beatificazione ha luogo a Roma il 1° maggio 2011 e la sua Canonizzazione il 27 aprile 2014.
Karol Józef Wojtyla, eletto Papa il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Cracovia, il 18 maggio 1920.
Era il secondo dei due figli di Karol Wojtyla e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941.
A nove anni ricevette la Prima Comunione e a diciotto anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.
Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.
A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del "Teatro Rapsodico", anch’esso clandestino.
Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale a Cracovia il 1 novembre 1946. Successivamente, fu inviato dal Cardinale Sapieha a Roma, dove conseguì il dottorato in teologia (1948), con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce. In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.
Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowic, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino una tesi sulla possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.
Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.
Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Paolo VI che lo creò Cardinale il 26 giugno 1967.
Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-65) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyla prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.
Viene eletto Papa il 16 ottobre 1978 e il 22 ottobre segue l'inizio solenne del Suo ministero di Pastore Universale della Chiesa.
Dall’inizio del suo Pontificato, Papa Giovanni Paolo II ha compiuto 146 visite pastorali in Italia e, come Vescovo di Roma, ha visitato 317 delle attuali 332 parrocchie romane. I viaggi apostolici nel mondo - espressione della costante sollecitudine pastorale del Successore di Pietro per tutte le Chiese - sono stati 104.
Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Encicliche, 15 Esorta-zioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche. A Papa Giovanni Paolo II si ascrivono anche 5 libri: "Varcare la soglia della speranza" (ottobre 1994); "Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio" (novembre 1996); "Trittico romano", meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); "Alzatevi, andiamo!" (maggio 2004) e "Memoria e Identità" (febbraio 2005).
Papa Giovanni Paolo II ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione - nelle quali ha proclamato 1338 beati - e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha tenuto 9 concistori, in cui ha creato 231 (+ 1 in pectore) Cardinali. Ha presieduto anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.
Dal 1978 ha convocato 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).
Nessun Papa ha incontrato tante persone come Giovanni Paolo II: alle Udienze Generali del mercoledì (oltre 1160) hanno partecipato più di 17 milioni e 600mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose (più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo; numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.
Muore a Roma, nel suo alloggio nella Città del Vaticano, alle ore 21.37 di sabato 2 aprile 2005. I solenni funerali in Piazza San Pietro e la sepoltura nelle Grotte Vaticane seguono l'8 aprile.
Fonte: www.karol-wojtyla.org
XIII secolo
Emblema: Corona, Scettro
Sposa di Giacomo II°, Re di Maiorca (Spagna), la Beata Esclaramunda, fu ricevuta fra le sorelle dell’Ordine Mercedario da San Pietro de Amer nell’anno 1291.
Fu di grande aiuto all’Ordine e lo onorò con le virtù finché ornata di moltissimi doni e favori celesti, da Dio, meritò di ricevere il premio eterno.
L’Ordine la festeggia il 22 ottobre.
Autore: Alberto Boccali
Sec. XV
I Rucellai erano mercanti che avevano fatto fortuna soprattutto con la tintura delle stoffe. Conservarono gelosamente il segreto -scoperto casualmente, in circostanze quanto mai impensate, per non dire imbarazzanti -per ottenere quel bel colore violetto, detto appunto " oricello ".
A Firenze, i Rucellai erano da generazioni una delle casate più illustri e munifiche della città. Si può dire che un intero quartiere cittadino, quello di Santa Maria Novella fosse sotto il patronato dei Rucellai, il cui stemma ricorreva su molti monumenti, simbolo di fierezza e sinonimo di opulenza. Era infatti formato da una vela, gonfia dal vento della propizia fortuna.
La Beata oggi festeggiata si chiamava, nel secolo, Cammilla, ed era nata nella nobile famiglia dei Bartolini. Adolescente, sposò Rodolfo Rucellai, e andò a vivere nello splendido palazzo albertino dei fortunati tintori.
Sui trent'anni, però, le parole del Savonarola la trassero dalle cure mondane, accendendo in lei i fuochi della più profonda e sofferta spiritualità.
Anche Rodolfo, il marito, fu scosso dalle profetiche orazioni del predicatore, e decise, un po' affrettatamente, di dividersi dalla moglie, che non aveva avuto figli, per vestire, a San Marco, l'abito domenicano.
Cammilla accettò la decisione del marito, pur non condividendone l'opportunità. Divenne terziaria di San Domenico. Dopo pochi mesi, Rodolfo Rucellai, più impulsivo, ma meno forte della moglie, si stancò dello stato religioso e volle tornare al mondo, tentando di convincere la moglie di fare altrettanto. Ma allora fu lei ad opporsi con inaspettata tenacia. La donna infatti, dopo un sofferto travaglio, aveva trovato nel nuovo stato una ricchezza spirituale al confronto della quale tutte le lusinghe del mondo apparivano labili.
Rodolfo mori poco dopo, e Cammilla, suora con il nome di Lucia, restò nel convento delle terziarie domenicane, facendosi promotrice di una nuova fondazione, intitolata a Santa Caterina da Siena.
Dopo la tragica fine del Savonarola, impiccato ed arso come eretico, sulla Piazza della Signoria, nel maggio del 1498, Lucia Bartolini Rucellai fu guida saggia e rigorosa del convento fiorentino di Santa Caterina, in qualità di priora, ottenendo per le sue terziarie, il permesso di emettere tre voti e più tardi quello di vestire l'abito delle suore del secondo Ordine.
Mortificata, penitente, severissima con se stessa, Lucia pregava con tanto fervore che, si diceva, il convento di Santa Caterina appariva coronato di fiamme, nel tempo in cui era in orazione. E appena morì, nel 1520, dopo una malattia serenamente accettata, la sua aureola di Beata venne a impreziosire la gloria della ricchissima famiglia dei Rucellai.
Fonte: Archivio Parrocchia
Sec. VI
Anicio Manlio Torquato Severino Boezio per tutti rappresenta spesso solo un paragrafo del manuale di storia della filosofia. Dagli studiosi è visto come il filosofo che sintetizzò il pensiero classico e la cultura cristiana, lasciando l'unica eredità filosofica di rilievo della seconda metà del primo millennio. Boezio nasce a Roma, attorno al 475 da un patrizio della gens Anicia che fu console sotto Odoacre. È senatore a 25 anni e console unico nel 510. Sposa Rusticiana divenendo genero dell'imperatore Simmaco e cognato delle sante Proba e Galla; ebbe due figli che diventeranno consoli nel 522. Collaborò con Teodorico contribuendo a diffondere fra i Goti il pensiero romano e la fede cristiana. La sua integrità lo oppose però a Teodorico stesso che lo condannò ingiustamente. Esiliato a Pavia, fu chiuso da Eusebio, prefetto di quella città, nel battistero della vecchia cattedrale in Agro Calventiano e lì ucciso nel 524. L'opera più famosa di Boezio è quella da lui scritta in carcere nel 523-524: il «De consolatione philosophiae», scritto ben conosciuto, oltre che da Dante, anche dai letterati e dagli umanisti rinascimentali. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio, martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re Teodorico.
Boezio, nato a Roma nel 480 circa dalla nobile stirpe degli Anicii, entrò ancor giovane nella vita pubblica, raggiungendo già a venticinque anni la carica di senatore. Fedele alla tradizione della sua famiglia, si impegnò in politica convinto che si potessero temperare insieme le linee portanti della società romana con i valori dei popoli nuovi. E in questo nuovo tempo dell'incontro delle culture considerò come sua propria missione quella di riconciliare e di mettere insieme queste due culture, la classica romana con la nascente del popolo ostrogoto. Fu così attivo in politica anche sotto Teodorico, che nei primi tempi lo stimava molto. Nonostante questa attività pubblica, Boezio non trascurò gli studi, dedicandosi in particolare all’approfondimento di temi di ordine filosofico-religioso. Ma scrisse anche manuali di aritmetica, di geometria, di musica, di astronomia: tutto con l'intenzione di trasmettere alle nuove generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura greco-romana. In questo ambito, cioè nell’impegno di promuovere l'incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca per proporre la fede cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio evangelico. Proprio per questo, Boezio è stato qualificato come l’ultimo rappresentante della cultura romana antica e il primo degli intellettuali medievali.
La sua opera certamente più nota è il De consolatione philosophiae, che egli compose in carcere per dare un senso alla sua ingiusta detenzione. Era stato infatti accusato di complotto contro il re Teodorico per aver assunto la difesa in giudizio di un amico, il senatore Albino. Ma questo era un pretesto: in realtà Teodorico, ariano e barbaro, sospettava che Boezio avesse simpatie per l’imperatore bizantino Giustiniano. Di fatto, processato e condannato a morte, fu giustiziato il 23 ottobre del 524, a soli 44 anni. Proprio per questa sua drammatica fine, egli può parlare dall’interno della propria esperienza anche all’uomo contemporaneo e soprattutto alle tantissime persone che subiscono la sua stessa sorte a causa dell’ingiustizia presente in tanta parte della ‘giustizia umana’. In quest’opera, nel carcere cerca la consolazione, cerca la luce, cerca la saggezza. E dice di aver saputo distinguere, proprio in questa situazione, tra i beni apparenti – nel carcere essi scompaiono – e i beni veri, come come l’autentica amicizia che anche nel carcere non scompaiono. Il bene più alto è Dio: Boezio imparò – e lo insegna a noi – a non cadere nel fatalismo, che spegne la speranza. Egli ci insegna che non governa il fato, governa la Provvidenza ed essa ha un volto. Con la Provvidenza si può parlare, perché la Provvidenza è Dio. Così, anche nel carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui che ci salva. Nello stesso tempo, anche in questa situazione egli conserva il senso della bellezza della cultura e richiama l’insegnamento dei grandi filosofi antichi greci e romani come Platone, Aristotile – aveva cominciato a tradurre questi greci in latino - Cicerone, Seneca, ed anche poeti come Tibullo e Virgilio.
La filosofia, nel senso della ricerca della vera saggezza, è secondo Boezio la vera medicina dell’anima (lib. I). D’altra parte, l’uomo può sperimentare l’autentica felicità unicamente nella propria interiorità (lib. II). Per questo, Boezio riesce a trovare un senso nel pensare alla propria tragedia personale alla luce di un testo sapienziale dell’Antico Testamento (Sap 7,30-8,1) che egli cita: “Contro la sapienza la malvagità non può prevalere. Essa si estende da un confine all’altro con forza e governa con bontà eccellente ogni cosa” (Lib. III, 12: PL 63, col. 780). La cosiddetta prosperità dei malvagi, pertanto, si rivela menzognera (lib. IV), e si evidenzia la natura provvidenziale dell’adversa fortuna. Le difficoltà della vita non soltanto rivelano quanto quest’ultima sia effimera e di breve durata, ma si dimostrano perfino utili per individuare e mantenere gli autentici rapporti fra gli uomini. L’adversa fortuna permette infatti di discernere i falsi amici dai veri e fa capire che nulla è più prezioso per l’uomo di un’amicizia vera. Accettare fatalisticamente una condizione di sofferenza è assolutamente pericoloso, aggiunge il credente Boezio, perché “elimina alla radice la possibilità stessa della preghiera e della speranza teologale che stanno alla base del rapporto dell’uomo con Dio” (Lib. V, 3: PL 63, col. 842).
La perorazione finale del De consolatione philosophiae può essere considerata una sintesi dell’intero insegnamento che Boezio rivolge a se stesso e a tutti coloro che si dovessero trovare nelle sue stesse condizioni. Scrive così in carcere: “Combattete dunque i vizi, dedicatevi ad una vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L’imposizione che avete subìto può tramutarsi, qualora rifiutiate di mentire, nell’enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice supremo che vede e sa come stanno veramente le cose” (Lib. V, 6: PL 63, col. 862). Ogni detenuto, per qualunque motivo sia finito in carcere, intuisce quanto sia pesante questa particolare condizione umana, soprattutto quando essa è abbrutita, come accadde a Boezio, dal ricorso alla tortura. Particolarmente assurda è poi la condizione di chi, ancora come Boezio che la città di Pavia riconosce e celebra nella liturgia come martire della fede, viene torturato a morte senza alcun altro motivo che non sia quello delle proprie convinzioni ideali, politiche e religiose. Boezio, simbolo di un numero immenso di detenuti ingiustamente di tutti i tempi e di tutte le latitudini, è di fatto oggettiva porta di ingresso alla contemplazione del misterioso Crocifisso del Golgota.
Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 12.03.2008)
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Manlio è parte integrante del lungo nome del grande filosofo e poeta, cancelliere del re ostrogoto Teodorico: Anicio Manlio Torquato Severino Boezio. Nato a Roma circa il 475 da un patrizio della gens Anicia che fu console sotto Odoacre, è uno dei più grandi rappresentanti della cultura greco-romana nell’età dei regni barbarici, congiungendo nella sua opera, l’eredità del classicismo pagano con gli ideali e il pensiero cristiani, dando un profondo contributo alla formazione della filosofia medioevale.
Fu senatore a 25 anni, console unico nel 510. Sposò Rusticiana divenendo genero dell’imperatore Simmaco e cognato delle sante Proba e Galla; ebbe due figli Simmaco e Boezio che diventeranno consoli nel 522.
Collaborò con Teodorico contribuendo a diffondere fra i Goti l’humanitas romana e cristiana.
L’integrità della sua coscienza lo costrinse ad opporsi ad ingiustizie perpetrate alla corte di Teodorico, difendendo anche il senatore Albino, accusato ingiustamente di tramare contro il re d’accordo con l’imperatore d’Oriente Giustino.
A Verona la difesa dell’accusato lo rese inviso a Teodorico, ormai disposto a vendette sanguinose. Fu accusato a sua volta sulla base di calunnie prezzolate, pertanto fu condannato senza appello dal re, il quale chiese la ratifica della pena ad un senato pauroso e servile. Esiliato a Pavia, fu racchiuso da Eusebio prefetto di quella città, nel battistero della vecchia cattedrale in Agro Calventiano e lì ucciso nel 524.
Dopo la morte di Teodorico avvenuta il 30 agosto 526, il corpo di Boezio fu sepolto a Pavia nella chiesa di s. Pietro in Ciel d’Oro.
Benché non riportato nel ‘Martirologio Romano’, ebbe culto a Pavia almeno dal sec. XIII, la sua festa fu celebrata il 23 ottobre data supposta della sua morte. La dignità di martire e la sua santità furono celebrate anche da Dante nella Divina Commedia (Paradiso, X, versetto 124 e segg.); anche Giosué Carducci nel poetare sulla fine di Teodorico nel Vulcano di Lipari, scorge in cima al monte brillare un’ampia fronte: “sanguinosa in un sorriso / di martirio e di splendor: / di Boezio è il santo viso, / del romano senator”.
L’opera più famosa di Boezio è quella da lui scritta in carcere nel 523-524: il De consolatione philosophiae in 5 libri che raccolgono la ‘Summa’ delle sue esperienze culturali e umane. Nelle miniature che ornano i Codici delle sue opere, il santo è raffigurato seduto in cattedra o sdraiato in atto di scrivere con a lato assistito e ‘consolato’ dalla Filosofia, donna bella che reca ricamate nelle sue vesti le lettere greche simbolo della filosofia pratica e teoretica, unita fra loro da una scala.
Autore: Antonio Borrelli
Erzegovina, 1424 – Roma, 23 ottobre 1478
Le notizie sulla sua vita sono alquanto scarne, ma sufficienti a farci comprendere la grandezza della sua figura, prevalentemente cattolica; vissuta in uno Stato balcano minacciato continuamente dall’espansionismo musulmano.
Nata in Erzegovina nel 1424, sposò il penultimo re di Bosnia Stefano Thomas, adoperandosi per la diffusione della fede nel suo regno; chiamò i Francescani ad Jaice la capitale, per contrastare e convertire i molti eretici e scismatici bogomili, che avevano fatto della Bosnia la roccaforte della loro eresia; la quale contrapponeva il mondo dello spirito a quello della materia, considerato espressione della forza del male; negava la Ss. Trinità, la natura umana di Cristo, ridotta a sola apparenza, l’Antico Testamento, non riconosceva i riti liturgici, la gerarchia ecclesiastica, il battesimo e il matrimonio.
Nel 1463 i Turchi capeggiati dal sultano Maometto II, occuparono la Bosnia e fra l’altro catturarono i figli di Caterina, costringendoli a farsi musulmani; la regina poi rimasta vedova nello stesso anno, si recò in esilio a Roma, dove fu accolta con onore dal papa Pio II, diventando Terziaria Francescana e vivendo santamente, godendo di stima e considerazione dai successivi pontefici Paolo II e Sisto IV.
Morì a Roma il 23 ottobre 1478 e sepolta con solenni funerali nella chiesa dell’Aracoeli; nel suo testamento dispose che lasciava alla Santa Sede il suo regno, la spada e gli speroni (evidentemente i simboli regali), con la clausola che se il figlio Sigismondo, prigioniero dei turchi, una volta liberato fosse tornato al cristianesimo, egli sarebbe dovuto diventare il re di Bosnia.
L’Ordine Francescano celebra Caterina come beata, con la ricorrenza al 23 ottobre, giorno della sua morte.
Autore: Antonio Borrelli
+ Nagran, Arabia, VI secolo
Martirologio Romano: A Nagran in Arabia, passione dei santi Áreta, principe della città, e trecentoquaranta compagni, martiri al tempo dell’imperatore Giustino, sotto Du Nuwas o Dun‘an re d’Arabia.
Nei primi anni del VI secolo gli etiopi, partendo da Axum, capitale religiosa e politica dell’Etiopia, attraversarono il Mar Rosso per imporre il loro dominio sugli ebrei e sugli arabi che abitavano il territorio pressoché corrispondente all’attuale Yemen.
Un giorno Dunaan, membro della despota famiglia dominante, precedentemente convertito al giudaismo, si pose a guida della rivolta contro gli invasori etiopi che avevano voluto diffondere nelle terre conquistate anche la religione cristiana: preso possesso della città di Zafar, ne massacrò la guarnigione ed il clero.
Trasformata una chiesa in una sinagoga, cinse allora d’assedio la città di Nagran, una tra le principali roccheforti cristiane di quel paese. Gli fu opposta una fiera resistenza e Dunaan ebbe la meglio soltanto quando promise un’amnistia agli abitanti qualora si fossero arresi. Lasciò che i suoi soldati saccheggiassero tutta la città e condanno a morte tutti quei cristiani che avessero preferito non abbandonare la loro fede.
Il capo della resistenza fu un certo Banu Harith, citato quale Areta dai testi greco-latini, che il Martyrologium Romanum vuole principe della città di Nagran: egli fu decapitato insieme ai membri delle tribù che lo avevano sostenuto, mentre molti sacerdoti, diaconi e vergini consacrate furono arsi vivi. Dunaan tentò di adescare la moglie di Areta come sua concubina, ma incappando in un suo netto rifiuto, si vendicò giustiziando dinnanzi i suoi occhi le quattro figlie e poi decapitando anche lei stessa. Il martirologio cattolico fissa nel numero 340 la quantità di cristiani che patirono il martirio in tali circostanze con Areta, ma altre fonti asseriscono che possano essere stati anche più di quattromila. Tutto ciò avvenne al tempo dell’imperatore Giustino e sotto Dhu Nuwas (o Dun’an), re degli Omeritani.
Dunaan stesso stilò un dettagliato resoconto dell’accaduto in una lettera ad un altro re arabo. Alla lettura erano presenti anche due vescovi cristiani, le cui testimonianze unite a quelle di alcuni profughi di Nagran contribuirono a diffondere in tutto il Medio Oriente la notizia del tragico massacro e la venerazione per i santi martiri. Per molto tempo risuonò ancora l’eco di questa vicenda ed addirittura Maometto fece menzione del massacro nella Sura 85 del Corano, condannando i colpevoli all’inferno. Il patriarca di Alessandria d’Egitto scrisse ai vescovi orientali raccomandandosi che le vittime fossero da tutte le Chiese commemorate come martiri cristiani.
La singolare vicenda di questa famiglia di martiri, Areta ed i suoi congiunti, nonché di tutti gli altri compagni di martirio, nel XVI secolo a giudizio del cardinale Baronio meritò di essere citata anche nel Martirologio Romano al 24 ottobre, soprassedendo al fatto che tutti costoro fossero assai probabilmente seguaci dell’eresia monofisita. Dunque il Baronio riconobbe indirettamente come la palma del martirio superasse la macchia dell’eresia, a meno che la sua conoscenza alquanto sommaria delle Chiese d’Oriente non gli abbia fatto neppure sfiorare il dubbio dell’ortodossia dottrinale della Chiesa etiope.
Autore: Fabio Arduino
XII secolo
Gilberto, nobile di Alvernia, prese parte alla crociata organizzata dal re francese Luigi VII nel 1146. Tornato nel paese natio, dopo l’infelice esito della spedizione, decise insieme a sua moglie Petronilla ed alla figlia Ponzia di abbracciare la vita religiosa. Fondarono dunque un monastero di donne ad Aubeterre, di cui Petronilla fu badessa sino alla morte. In seguito le succedette proprio sua figlia Ponzia. Terminano qui le notizie in nostro possesso circa l’esistenza di queste due sante donne.
Gilberto, loro congiunto, dopo aver vissuto un periodo di tempo come eremita a Neuffonts, eresse un monastero maschile ed un ospedale, ove poté dedicarsi alla cura degli ammalati. Nel 1151 vestì l’abito premostratense nel monastero di Dilo e poco dopo fece ritorno a Neuffonts con molti confratelli, che lo elessero loro abate. Morì il 6 giugno 1152 e da allora operò parecchi miracoli. Nel 1615 una parte delle sue reliquie fu traslata nel collegio dei Premostratensi a Parigi. La memoria comune di questa santa famiglia è al 24 ottobre, mentre Gilberto è singolarmente commemorato dal Martirologio Romano nell’anniversario della morte.
Autore: Fabio Arduino
Giornata ricchissima oggi! Iniziamo con una coppia che ha solo finto di sposarsi... bella storia! Bellissima la famiglia di S. Canna, santa lei, il marito, il figlio del primo matrimonio, poi si risposa e ha altri due figli, santi anche loro!!! Poi la Beata Maria Teresa, Santa Tabìta, risuscitata da San Pietro, il Beato Ludovico e infine i Santi sposi Mauro e Beneria, martiri.
Roma, † 283 ca.
I due santi patroni della città di Reggio Emilia vissero e morirono martiri nel III secolo, probabilmente nel 283. Crisanto figlio di un certo Polemio, di origine alessandrina, venne a Roma per studiare filosofia al tempo dell'imperatore Numeriano (283-284), qui ebbe l'occasione di conoscere il presbitero Carpoforo e si fece battezzare. Il padre Polemio cercò in tutti i modi di farlo tornare al culto degli dei, si servì anche di alcune donne e specialmente della bella vestale Daria. Ma Crisanto riuscì a convertire Daria e di comune accordo, simulando il matrimonio, poterono essere lasciati liberi di predicare, convertendo molti altri romani al Cristianesimo. La cosa non passò inosservata, scoperti furono infine accusati al prefetto Celerino, il quale li affidò al tribuno Claudio, che però si convertì insieme alla moglie Ilaria, i due figli Giasone e Mauro, alcuni parenti ed amici e i settanta soldati della guarnigione, che aveva in custodia gli arrestati. Scoperti, vennero tutti condannati a morte dallo stesso imperatore Numeriano. Crisanto e Daria furono condotti sulla Via Salaria, gettati in una fossa e sepolti vivi. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Trasóne sulla via Salaria nuova, santi Crisanto e Daria, martiri, lodati dal papa san Damaso.
I due santi patroni della città di Reggio Emilia vissero e morirono nel III secolo, l’anno del martirio si suppone fosse il 283; sono ricordati singolarmente o in coppia in svariati giorni dell’anno secondo i vari Martirologi e Sinassari, mentre il famoso Calendario Marmoreo di Napoli e per ultimo il Martirologio Romano, li ricordano il 25 ottobre.
I due martiri sono raffigurati in varie opere d’arte, reliquiari, pannelli, affreschi, mosaici, per lo più di origine italiana, situati in alcune città d’Italia, di Germania, Austria e Francia; questo testimonia la diffusione del loro antichissimo culto in tutta la Chiesa.
La loro vicenda, narrata in modo epico e fantasioso dalla ‘passio’, risente senz’altro della lontananza del tempo e della necessità di ricostruire la ‘Vita’ con pochissime notizie certe.
Questa ‘passio’ di cui si hanno versioni in latino e in greco, era già esistente nel secolo VI poiché era nota a s. Gregorio di Tours (538-594), vescovo francese e grande storico dell’epoca.
Crisanto figlio di un certo Polemio, di origine alessandrina, venne a Roma per studiare filosofia al tempo dell’imperatore Numeriano (283-284), qui ebbe l’occasione di conoscere il presbitero Carpoforo, quindi si istruì nella religione cristiana e poi battezzare.
Il padre Polemio cercò in tutti i modi di farlo tornare al culto degli dei, si servì anche di alcune donne e specialmente della vestale Daria, dotta e bella donna.
Ma Crisanto riuscì a convertire Daria e di comune accordo, simulando il matrimonio, poterono essere lasciati liberi di predicare, convertendo molti altri romani al Cristianesimo.
Ma la cosa non passò inosservata, scoperti furono infine accusati al prefetto Celerino, il quale li affidò al tribuno Claudio, che in seguito ad alcuni prodigi operati da Crisanto, si convertì insieme alla moglie Ilaria, i due figli Giasone e Mauro, alcuni parenti ed amici e gli stessi settanta soldati della guarnigione, che aveva in custodia gli arrestati.
A questo punto intervenne direttamente l’imperatore Numeriano che condannò Claudio ad essere gettato in mare con una grossa pietra al collo, mentre i due figli e i settanta soldati vennero decapitati e poi sepolti sulla Via Salaria; dopo qualche giorno anche Ilaria mentre pregava sulla loro tomba morì.
Anche Crisanto e Daria dopo essere stati sottoposti ad estenuanti interrogatori, furono condotti sulla Via Salaria, gettati in una fossa e sepolti vivi sotto una gran quantità di terra e sassi
Dagli ‘Itinerari’ del secolo VII, si sa che i due martiri erano sepolti in una chiesetta del cimitero di Trasone sulla medesima Via Salaria nuova. Una notizia certa riferisce che per la festa dei santi martiri, affluivano molti fedeli ai loro sepolcri e che il papa Pelagio II nel 590, dette alcune reliquie ad un diacono della Gallia.
Ma la storia delle reliquie è intessuta di notizie contraddittorie e leggendarie, la tradizione vuole infatti che furono operate tre traslazioni, una da papa Paolo I (757-767) che dalla Via Salaria le avrebbe portate nella chiesa di S. Silvestro a Roma; la seconda da papa Pasquale I (817-824) che invece le avrebbe trasferite dalla Via Salaria alla Chiesa di Santa Prassede e l’ultima da papa Stefano V (885-891), che le avrebbe portate al Laterano.
Da questa ultima chiesa poi nell’884 sarebbero state portate nel monastero di Münstereiffel in Germania, ancora nel 947 le reliquie sarebbero state trasferite a Reggio Emilia, di cui s. Crisanto e s. Daria sono i patroni, ad opera del vescovo Adelardo, il quale le avrebbe avute da Berengario che a sua volta le aveva ricevute nel 915 da papa Giovanni X, come si vede un bel ginepraio.
Altre città rivendicano il possesso di reliquie come Oria (Brindisi), Salisburgo, Vienna, Napoli.
Il duomo di Reggio Emilia possiede i due busti reliquiari in argento dei martiri, opera di Bartolomeo Spani.
Autore: Antonio Borrelli
VI secolo
Agli inizi del sec. VI, dalla Bretagna, Canna passò nel Galles, insieme col marito s. Saturnino (detto poi nel Galles “Sadwrn”), col figlio, s. Crallo, e con lo zio, s. Cadfan. Il motivo di questo trasferimento va forse cercato nelle invasioni dei Franchi, come pensano i Bollandisti, oppure in quegli intensi scambi che andavano sviluppandosi tra l’Inghilterra ed il continente. Morto s. Saturnino, Canna passò a seconde nozze con un nobile del luogo, Gallgu Reiddog o Alltu Redegog, da cui ebbe i figli s. Tegfan e s. Elian (Ilario), soprannominato poi “Geimiad”, “visitatore di luoghi santi, pellegrino”. Ognuno di questi santi ha lasciato il proprio nome legato a varie località, specialmente s. Elian che gode di un culto particolarmente vivo nell’isola di Mona. La loro memoria liturgica ricorre il 25 ottobre.
Autore: Giovanni Battista Proja Fonte: Enciclopedia dei Santi
Algemesì, Spagna, 14 gennaio 1853 - Cruz Cubierta, Spagna, 25 ottobre 1936
Maria Teresa Ferragud Roig nacque il 14 gennaio 1853 a Algemesì in Spagna. Il 23 novembre 1872 sposò Vicente Silverio Masià, uomo di profonda fede e dal matrimonio nacquero nove figli, tra i quali tre clarisse cappuccine ed un'agostiniana scalza: Maria Jesus, Maria Veronica, Maria Felicidad Masià Ferragud e Josefa della Purificazione. Maria Teresa andava tutti i giorni a Messa, essendo assai devota al Santissimo Sacramento, alla Madonna ed al Sacro Cuore di Gesù. Promosse attività caritatevoli specialmente attraverso la Confraternita di San Vicenzo de' Paoli, della quale fu anche presidente. Allo scoppio della guerra civile e della persecuzione religiosa che attraversò la Spagna negli anni '30 del secolo scorso, Maria Teresa rimase accolse in casa le quattro figlie religiose. Queste furono però trovate ed anche la madre fu imprigionata con loro perché rifiutò di lasciarle sole. Il 25 ottobre 1936 furono uccise tutte presso Cruz Cubierta. Maria Teresa chiese di essere fucilata per ultima, per poter incoraggiare le figlie nella fedeltà al Signore. E tutte gridarono «Viva Cristo Re!» e perdonando i loro carnefici. (Avvenire)
Martirologio Romano: Ad Alzira nel territorio di Valencia sempre in Spagna, beate Maria Teresa Ferragud Roig e le sue figlie Maria di Gesù (Vincenza), Maria Veronica (Gioacchina), Maria Felicita Masiá Ferragud, vergine dell’Ordine delle Clarisse Cappuccine, e Giuseppa della Purificazione (Raimonda) Masiá Ferragud, vergini dell’Ordine delle Agostiniane Scalze, martiri, che sempre nella stessa persecuzione furono incoronate per avere coraggiosamente reso testimonianza a Cristo.
Maria Teresa Ferragud Roig, fedele laica dell’arcidiocesi di Valencia, nacque il 14 gennaio 1853 a Algemesì in Spagna. Il 23 novembre 1872 si sposò con Vicente Silverio Masià, uomo di fede profonda e costante preghiera, e da tale matrimonio nacquero ben nove figli, tra le quali tre Clarisse Cappuccine ed un’Agostiniana Scalza: Maria Jesus (Maria Vincenta Masià Ferragud), nata il 12 gennaio 1882, Maria Veronica (Maria Joaquina Masià Ferragud), nata il 15 giugno 1884, Maria Felicidad Masià Ferragud, nata il 29 agosto 1890, e Josefa della Purificazione (Josefa Ramona Masià Ferragud), nata il 10 giugno 1897.
Maria Teresa era solita prender parte quotidianamente alla celebrazione eucaristica, essendo assai devota al Santissimo Sacramento, alla Madonna, mediante la recita del Santo Rosario, ed al Sacro Cuore di Gesù. Promosse attività caritatevoli specialmente attraverso la Confraternita di San Vicenzo de’ Paoli, della quale fu anche presidentessa.
Allo scoppio della guerra civile e della feroce persecuzione religiosa che attraversò la Spagna negli anni ‘30 del XX secolo, Maria Teresa rimase molto sconvolta ed accolse con gioia in casa le quattro figlie religiose. Queste furono però comunque scovate ed anche la madre fu con loro imprigionata perchè rifiutò di lasciarle sole. Pochi giorni dopo, il 25 ottobre 1936, le cinque donne furono uccise insieme presso Cruz Cubierta. Maria Teresa chiese di essere fucilata per ultima, per poter incoraggiare le figlie nella fedeltà al Divino Sposo. Tutte quante terminarono la loro esistenza terrena gridando “Viva Cristo Re!” e perdonando i loro carnefici.
Autore: Fabio Arduino
Sec. I
Senza nessuna memoria di Santo registrata per oggi dal Calendario della Chiesa, rinverdiremo il ricordo di una Santa dal nome insolito: Tabita. Nome che diviene, però, quanto mai suggestivo quando si sappia che Tabita in ebraico, significava "gazzella ", e che " gazzella ", a sua volta, era nome composto con la parola ebraica " bellezza ", evidentemente grazie alla delicata eleganza di questo animale.
In greco, la Santa di oggi è chiamata Dorcas: il significato di questo nome è identico, perché vuoi dire anch'esso "gazzella".
Che cosa sappiamo sul conto della gazzella cristiana? Conosciamo soprattutto - anzi, esclusivamente - un episodio narrato dagli Atti degli Apostoli, che resta tra i miracoli più celebri dell'Apostolo Pietro.
Rileggiamo insieme: "C'era nella terra di loppe, - è scritto, - una cara discepola, chiamata Tabíta, che tradotto significava Dorcas. Era donna ricca di buone opere, e faceva molte elemosine.
"Avvenne che proprio in quei giorni ella si ammalò, e morì. E, dopo che l'ebbero lavata, la posero nella sala al piano di sopra. Siccome Lidda era vicina a Joppe, i discepoli, saputo che Pietro era lì, gli mandarono due uomini a pregarlo: "Non ti dispiaccia venire sino noi! ".
"Pietro si levò, e andò con loro e, come fu giunto, lo condussero nella sala di sopra. Tutte le vedove gli si fecero intorno, piangendo, mostrando le vesti e i mantelli di ogni genere che Dorcas faceva per loro.
"Allora Pietro, fatti uscire tutti fuori, si mise in ginocchio e pregò. Poi, rivoltosi alla morta, disse: "Tabíta, alzati”, ed ella apri gli occhi e, vedendo Pietro, si levò a sedere.
" Pietro le dette una mano, e la fece alzare e, chiamati i santi e le vedove, la presentò a loro viva.
" Il fatto - aggiungono gli Atti degli Apostoli -venne risaputo per tutta loppe, e molti credettero nel Signore. Pietro si fermò a Joppe diversi giorni, in casa di un certo Simone, cuoiaio ".
Nulla di più sappiamo sul conto della donna di Joppe, cioè dell'odierna città di Giaffa. L'episodio miracoloso narrato dagli Atti degli Apostoli è l'unica testimonianza storica alla quale è affidato il ricordo della "gazzella" cristiana, richiamata in vita dalle preghiere di San Pietro.
I Greci introdussero il nome della "cara discepola" nel Calendario dei Santi, ma non si può dire che Tabita abbia mai conosciuto un culto particolare né una diffusa devozione. La sua memoria, tra i Santi, è restata sempre un po' in disparte, e neanche le leggende hanno aggiunto un seguito al clamoroso miracolo di loppe.
Ma la memoria della gazzella risvegliata dal sonno eterno dalle preghiere di San Pietro non si è perduta, e dalle pagine del testo ispirato, la figura della donna generosa si leva ancora eloquente davanti a noi, pur nell'oscurità che la circonda prima e poi.
Fonte: Archivio Parrocchia
+ Gommersheim, Germania, 25 ottobre 1185
Nel 1139, Ludovico trasformò il suo castello di Arnstein (diocesi di Treviri), in due monasteri per religiosi e religiose Premostratensi provenienti da quello “Gratia Dei” di Magdeburgo. Ludovico entrò tra i religiosi, mentre sua moglie Eutta o Iutta tra le religiose. Egli volle rimanere sempre semplice fratello converso, attendendo col più grande impegno all’amministrazione del monastero che gli fu confidata. Si esercitò mirabilmente nelle virtù cristiane: eccelse nell’umiltà e nella misericordia verso i poveri.
Il duplice monastero non ebbe lunga vita: le religiose canonichesse infatti ben presto si trasferirono a Gommersheim, diocesi di Magonza: in questo monastero Ludovico morì il 25 ottobre 1185.
Le sue spoglie furono traslate ad Arnstein, e poste nel sepolcro davanti all’altar maggiore. Il culto pubblico di Ludovico fu concesso alla Congregazione dei Premostratensi in Spagna, praticamente separata dal resto dell’Ordine fin dal sec. XVI; tale Congregazione finì all’inizio del sec. XIX e con essa cessò il culto pubblico a Ludovico di Arnstein.
Autore: Giovanni Battista Valvekens Fonte: Enciclopedia dei Santi
+ Sardegna
I coniugi Mauro e Beneria vennero decapitati in odio alla fede cristiana ed il loro martirio fu così giusta causa della venerazione nei loro confronti quali "santi". Sono commemorati al 25 ottobre.
Antowil, Polonia, 29 ottobre 1833 – Cracovia, Polonia, 26 ottobre 1913
Celina Chludzinska nacque il 29 ottobre 1833 ad Antowil (Polonia) e morì il 26 ottobre 1913 a Cracovia (Polonia). Come santa Rita, attraversò tutti gli stati di vita del cristiano. Vergine, sposa, madre di famiglia, vedova, religiosa e fondatrice, aspirò costantemente alla perfezione cristiana. Innamorata della sua patria, operò per l’innalzamento spirituale dei polacchi dispersi in Europa e America. Moglie esemplare e madre di 4 figli, si trasferì a Vienna per meglio curare il marito rimasto paralizzato. Nella capitale austriaca conobbe padre Pietro Semenenko, uno dei sostenitori della spiritualità risurrezionista e cofondatore della congregazione maschile della Risurrezione. Alla morte del marito, con la figlia Edvige si trasferisce a Roma dove può finalmente dedicarsi alla vita religiosa. Le due donne sono guidate dalla convinzione che Cristo è presente nelle anime, le libera dalla schiavitù presente e le rigenera a vita nuova. Nel 1891 Celina può finalmente tornare in patria per aprirvi una casa del nuovo istituto. Presto seguiranno altre fondazioni a Czestochowa, a Varsavia, in Bulgaria. All’inizio del nuovo secolo, alcune consorelle si imbarcano per gli Stati Uniti, dove le nuove religiose hanno presto una rapida diffusione. Nel 1906 muore a Roma la figlia Edvige. Per madre Celina, che già deve affrontare numerose difficoltà connesse con la fondazione della congregazione, è una dura prova. Nonostante tutto, intensifica la sua attività. Profondamente convinta della presenza di Cristo nella sua vita, porta la pesante croce per arrivare, come Gesù, alla resurrezione e alla gloria. Dichiarata “venerabile” l’11 febbraio 1982, è stato riconosciuto un miracolo attribuito alla sua intercessione in data 16 dicembre 2006 e finalmente il 27 ottobre 2007 è stata beatificata a Roma nella Basilica di San Giovanni in Laterano.
Celina Chludzinska nacque il 29 ottobre 1833 ad Antowil, nella Polonia orientale. Ben presto avvertì di essere chiamata alla vita religiosa, ma sia i genitori che il vescovo, suo direttore spirituale, la orientarono verso il matrimonio. Convolata a nozze nel 1853, fu una moglie esemplare e madre di quattro figli. Nel 1863 fu arrestata per aver aiutato alcuni insorti contro il regime zarista e sei anni dopo si trasferì a Vienna per dedicarsi all’assistenza del marito paralizzato, nonché all’educazione delle figlie Celina ed Edvige. Rimasta vedova, nel 1875 si trasferì a Roma, ove grazie al servo di Dio Pietro Semenenko venne a contatto con la spiritualità risurrezionista.
Insieme con la figlia Edvige decise allora di intraprendere finalmente la vita religiosa e nel 1882 diede vita alla Congregazione delle Suore della Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo (in realtà ufficializzata poi solo nove anni dopo) di carattere contemplativo-attivo, volta all’educazione cristiana delle ragazze ed al rinnovamento religioso e morale delle donne in genere.
Chiamata poi dal Cardinal Dunajewski, nel 1891 aprì in Polonia la casa del noviziato a Kety e dal 1896 portò la sua opera anche in Bulgaria, non limitandosi all’apostolato per i cattolici ma dedicandosi anche all’attività missionaria tra gli ortodossi. Rispettivamente negli anni 1898 e 1900 aprì le case di Czestochowa e Varsavia, ove le suore si ritrovarono costrette a nascondere la loro identità di religiose. Nel 1900 inviò alcune suore anche negli Stati Uniti d’America per l’educazione degli emigranti polacchi ed organizzò l’associazione laicale delle cosiddette suore aggregate affinché svolgessero il loro apostolato nel loro ambiente di vita secolare.
Nel 1902 intraprese la fondazione della casa madre a Roma, nel 1905 ottenne il “decretum laudis” per l’istituto e dal 1906, dopo la morte improvvisa della figlia Edvige, intensificò la sua attività e non senza fatica visitò le numerose case sparse in Europa ed in America. Nel 1911 convocò il primo capitolo generale, che la elesse a vita superiora generale, ma soli due anni dopo morì presso Cracovia il 26 ottobre 1913. Tra i suoi scritti che ci sono rimasti abbiamo le “Memorie per le mie figlie”, volte a porre in rilievo l’importanza della fiducia nell’educazione dei giovani, e le “Lettere dalla Bulgaria”.
La congregazione, la cui base spirituale è costituita dal Mistero pasquale ed il fine apostolico consiste nell’educazione cristiana e nella cura degli ammalati, è oggi assai diffuso e conta case in Argentina, Australia, Brasile, Canada, Inghilterra, Italia, Polonia e Stati Uniti. Ciò è indubbiamente anche frutto della fama di santità che circondo la fondatrice, Mare Chludzinska, il cui processo di canonizzazione ebbe inizio nel 1944. Dichiarata “venerabile” l’11 febbraio 1982, è stato riconosciuto un miracolo attribuito alla sua intercessione in data 16 dicembre 2006 e finalmente il 27 ottobre 2007 è stata beatificata a Roma nella Basilica di San Giovanni in Laterano.
Autore: Fabio Arduino
In questi resoconti spesso ho parlato della trasmissione della santità quasi per via "genetica" nelle famiglie, qui troviamo una santa, Santa Balsamia che oltre ad essere santa lei ed il figlio San Celsino, aveva "trasmesso la santità" anche a San Remigio di cui fu balia.
Ricordiamo poi un altro santo vescovo che era sposato. Magnifica coppia a cui l'arte sacra deve tantissimo!
Sec. VI
In Francia, nella diocesi di Reims, Balsamia viene onorata come nutrice di San Remigio, vescovo di quella città. Un dato che la rende particolarmente importante per l'Oltralpe. San Remigio, infatti, convertì nel V secolo la regina Clotilde e il marito Clodoveo. E con la conversione del re franco iniziò la storia cristiana della Francia. La figura di Balsamia si accosta a quella della madre di Remigio, Celina, anch'essa santa. Il nome della balia, però, appare tardivamente, nel X secolo quando oltre che nutrice viene identificata anche come madre di santi: san Celsino sarebbe stato, infatti, uno dei suoi figli. La leggenda dice che, benché venerata in Francia, Balsamia sarebbe stata di origine italiana. Da Roma sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgere la sua delicata mansione di nutrice. Una lettura della storia che stabilisce un legame forte tra Roma e la Francia: il latte, come un «balsamo», che ha nutrito il «padre della Chiesa francese», sarebbe venuto da Roma. (Avvenire)
La qualifica che Santa Balsamia si è portata con sé nel Calendario è quella di balia, o nutrice.
L'uso delle balie è oggi sempre meno diffusa nei nostri paesi, soggetta, giustamente, a ineccepibili critiche di carattere medico, igienico e anche psicologico. Ma un tempo costituiva un'istituzione di notevole importanza anche dal punto di vista sociale, mentre su un piano di vita familiare era l'inevitabile risposta alle abitudini prolifiche delle spose dei giorni andati. Si adottava, insomma, il principio della divisione dei compiti: alla madre occupata a mettere al mondo numerosa prole, si affiancava la nutrice che provvedeva al loro immediato sostentamento!
Questo, oltre alla delicatezza delle funzioni di una nutrice, che era pur sempre qualcosa di più che non una macchina per allattare, spiega la diffusione del culto per le Sante nutrici e soprattutto la popolarità di Santa Balsamia, vivissima nei secoli dei Medioevo.
La figura di questa Santa è molto pittoresca, ma anche assai nebulosa. In Francia, nella diocesi di Reims, ella viene onorata come nutrice di San Remigio, Vescovo di quella città. Si riflette perciò su di lei la gloria di un figlio di latte di eccezionale importanza, perché San Remigio fu colui che indusse alla conversione prima la Regina Clotilde, poi suo marito Clodoveo, con tutti i suoi Cavalieri franchi.
Con la conversione di Clodoveo, da parte di San Remigio, si iniziò quindi la storia cristiana della Francia, "figlia primogenita della Chiesa", e in questa storia, in quella figliolanza, anche il latte di Santa Balsamia sembrò avere un certo peso.
Abbiamo già detto che San Remigio venne considerato dai Francesi quasi un secondo Giovanni Battista, precursore e profeta del Verbo cristiano in terra di Francia. Si disse addirittura che anch'egli fosse stato benedetto nel grembo della madre, Santa Celina, che corrisponderebbe quindi a Santa Elisabetta, madre del Battista.
Ma con la santa di oggi, Balsamia, San Remigio avrebbe avuto qualcosa di più dello stesso San Giovanni. Avrebbe avuto santa anche la balia, il cui nome però appare tardivamente, nel X secolo e che, oltre che nutrice, vien detta madre di Santi, perché San Celsino sarebbe stato uno dei suoi figli.
Un tempo, in Francia, ella veniva chiamata Santa Nutrice, poi prevalse il nome di Balsamia, come se il latte da lei dispensato all'eccezionale figlioccio fosse stato un profumato balsamo di santità.
Un ultimo particolare le leggende aggiungono sul suo conto. Benché venerata in Francia, ella sarebbe stata di origine italiana, anzi romana, e da Roma, divinamente ispirata, sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgervi la sua delicata mansione di nutrice.
Il significato di questo particolare è trasparente: il latte - o balsamo - trasmesso dalla nutrice a San Remigio, e da questi trasmesso a tutta la Francia, "figlia primogenita della Chiesa", proveniva direttamente e indubbiamente da Roma: non corrotto, non adulterato, non sofisticato, era il latte puro della dottrina cattolica, apostolica e romana!
Fonte: Archivio Parrocchia
Sec. V
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Clermont-Ferrand in Aquitania, ora in Francia, san Namazio, vescovo, che eresse la cattedrale.
Il nome di Namazio, Namatius, di suono latino ma d'origine sicuramente gallica, è ormai spento anche in Francia, dove ricorre soltanto nei documenti storici dell'Alto Medioevo.
Cominciamo col dire che il Vescovo di Clermont, Namazio, aveva moglie. Nessuna meraviglia e nessuno scandalo. In quei secoli il Vescovo veniva eletto tra gli anziani più degni della comunità cristiana; cioè tra i "presbiteri", magari da poco convertiti, ma che già davano garanzia di serietà e di saggezza; anziani non tanto di età, quanto di senno e di virtù.
Non si dava mai il caso che fosse eletto Vescovo un anziano la cui moglie non avesse un certo grado di saggezza e di elevatezza morale. Si aggiunga che, dopo l'elezione, marito e moglie interrompevano la vita in comune e si dedicavano completamente a vita religiosa e ad opere di carità.
Questa esemplare corrispondenza di caratteri e d'intenti è dato cogliere in maniera particolarmente felice tra il Vescovo Namazio e sua moglie. Tutti e due pare che avessero una spiccata passione per l'arte sacra, alla quale dedicarono, ciascuno per proprio conto, una grande attività.
San Gregorio di Tours, storico della Francia cristiana, descrive particolarmente la grande chiesa costruita da San Namazio, dove, egli dice, "i fedeli sentivano un effluvio di profumo soavissimo, come di aromi".
Ma questo non avrebbe una grande importanza, perché tutti i Vescovi di quel tempo costruirono chiese e santuari, se Gregorio di Tours non descrivesse anche un'altra chiesa, e questa costruita dalla moglie di San Namazio. Inoltre, nel parlare di quella chiesa, San Gregorio si sofferma sopra un particolare di grande valore per la storia dell'arte. Ci dice cioè come la moglie di Namazio facesse ornare di pittura la sua chiesa, "leggendo le storie con un libro che portava sempre con sé, e indicando ai pittori ciò che essi dovevano raffigurare sui muri".
E' evidente la nascita della cosiddetta "Bibbia dei poveri". Le pitture sacre non erano che la trascrizione figurata dei testi rivelati. La moglie del Vescovo, che doveva essere una delle poche donne letterate della città, traeva i soggetti dal libro e li dettava ai pittori, spesso ignoranti come i fedeli, cioè illetterati, e quindi bisognosi di precise indicazioni.
Non si poteva quindi parlare di libertà degli artisti. Liberi sì, nel modo di dipingere, ma non nel soggetto delle pitture, fatte addirittura sotto dettatura. Eppure, proprio così nasceva quell'arte che ancora c'incanta, e che rende le antiche chiese piene di "soavissimo profumo". Ma c'è un altro particolare che attesta, non la cultura, ma la pietà della moglie del Vescovo. Ella andava vestita così dimessamente, che un giorno fu ritenuta una povera accattona. Le venne perciò offerto un pane. Ella l'accettò, ringraziando umilmente. E, dice San Gregorio, ogni giorno, finché durò, mangiò un boccone di quel pane, per ammonire se stessa che, per quanto moglie del Vescovo, anch'essa era nel mondo una povera accattona.
Con una moglie come quella, sicuramente San Namazio non ebbe mai impedito il cammino della virtù, né l'esercizio della carità.
Fonte: Archivio Parrocchia
Iniziamo oggi da un altro Santo Vescovo che era sposato (e fratello di Santa Fara).
Conosciamo poi il Beato Salvatore martire della guerra civile spagnola.
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Persuaso da sua sorella, Santa Fara, abbandonò la corte per servire solamente Dio. Nominato vescovo di Meaux in Francia, si dedicò alla conversione dei pagani, eresse parrocchie e fondò monasteri.
Martirologio Romano: A Meaux ancora in Neustria, san Farone, vescovo, che, dopo essere stato domestico del re, indotto da sua sorella santa Fara a servire Dio in pienezza, persuase sua moglie a prendere il velo delle consacrate, per potere essere così lui stesso ammesso nel clero; chiamato al governo pastorale, dotò la Chiesa di generose donazioni, eresse parrocchie e sostenne i monasteri.
Alcira, Spagna, 27 settembre 1862 – 28 ottobre 1936
Fedele laico dell'arcidiocesi di Valencia, in Spagna, Salvador Damian Engiux Garès, nacque il 27 settembre 1862 ad Alcira e fu battezzato il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di santa Caterina. Fu un uomo di grande fede, generoso nel lavoro e buono di carattere. Membro dell'Azione Cattolica, fondò l'adorazione notturna nella sua città. Vedovo con cinque figli, ex-veterinario ormai in pensione, allo scoppio della guerra civile e della feroce persecuzione religiosa che attraversò la Spagna, il 6 agosto 1936 venne incarcerato. Fu poi liberato per un breve periodo prima di essere nuovamente bloccato e imprigionato. Ha vissuto i giorni di prigionia nella fede e nella preghiera. Il 28 ottobre 1936 venne assassinato. Il papa Giovanni Paolo, II l'11 marzo 2001, ha elevato agli onori degli altari 233 vittime della stessa persecuzione, tra cui il beato Salvador Damian Engiux Garès, che viene festeggiato nell'anniversario del suo martirio. (Avvenire)
Martirologio Romano: Ad Alzira nel territorio di Valencia in Spagna, beato Salvatore Damiano Enguix Garés, martire, che, padre di famiglia, durante la persecuzione, portò a termine il combattimento per la fede.
Salvador Damian Engiux Garés, fedele laico dell’arcidiocesi di Valencia, nacque il 27 settembre 1862 ad Alcira in Spagna e fu battezzato il giorno seguente nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina. Fu un uomo di grande fede, generoso nel lavoro e pacifico di carattere. Membro dell’Azione Cattolica, fondò l’Adorazione Notturna nella sua città.
Vedovo con cinque figli, ex-veterinario ormai in pensione, allo scoppio della guerra civile e della feroce persecuzione religiosa che attraversò la Spagna il 6 agosto 1936 fu incarcerato, poi liberato ed infine incarcerato definitivamente alla fine di ottobre. Dopo una prigionia vissuta nella fede e nella preghiera, il 28 ottobre 1936 fu assassinato.
Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001 elevò agli onori degli altari ben 233 vittime della medesima persecuzione, tra le quali il Beato Salvador Damian Engiux Garés, che viene festeggiato nell’anniversario del suo martirio.
Autore: Fabio Arduino
Oggi un Santo che fu "quasi" sposato. Alla festa delle sue nozze fuggì desiderando una vita religiosa da anacoreta. Il matrimonio fu in seguito annullato.
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Nato in una ricca famiglia di Edessa in Siria, si fece eremita in una stretta cella. Ordinato sacerdote, evangelizzò la regione di Beth Kiduna e, non appena poté, riprese la sua vita di anacoreta.
Etimologia: Abramo = grande padre, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Edessa nell’antica Siria, sant’Abramo, anacoreta, la cui vita fu descritta dal diacono sant’Efrem.
Nacque da una ricca famiglia a Edessa, Siria. Gli fu imposto un matrimonio combinato in tenera età. Durante i festeggiamenti del matrimonio, Abraham fuggì. SI murò in una piccola cella poco lontano, lasciando un foro piccolo attraverso il quale la sua famiglia potè portargli cibo e acqua, e attraverso il quale poté spiegare il suo desiderio di una vita religiosa. La sua famiglia cedette, il matrimonio fu revocato, e così Abraham passò i successivi dieci anni rinchiuso nella sua cella.
Dopo un decennio di una vita da recluso, il vescovo di Edessa, contro i desideri stessi di Abraham, lo ordinò sacerdote e gli impose di partire missionario presso il villaggio intransigentemente pagano di Beth-Kiduna. Qui, Abraham riuscì a costruire una chiesa, a cancellare idoli, soffrì abusi e violenze, e col suo buon esempio riuscì a convertire il villaggio intero. Un anno dopo, dopo aver pregato ardentemente che Dio mandasse in quel posto in sua vece un pastore migliore di lui, fece ritorno alla sua cella. E' proprio dalla popolarità che conquistò in Kiduna che divenne famoso come Kidunaia (Qidonaya).
Lasciò la sua cella solamente altre due volte nella sua vita. Una volta una sua nipote, Santa Maria di Edessa, viveva una vita dissoluta. Abraham si travestì da soldato, seppe attirare l'attenzione di Maria e farsi accogliere in casa sua. Durante la cena riuscì a convincerla che viveva nel peccato e nell'errore, la convertì e da allora la vita di Maria cambiò. Dopo di che ritornò alla sua cella. La sua ultima uscita fu al suo funerale, al quale partecipò una gran folla di persone che lo amavano e piangevano per lui. La sua biografia fu scritta dal suo amico Sant'Ephrem.
Autore: Piero Stradella
Segovia, Spagna, 25 luglio 1533 - Palma di Maiorca, 30 ottobre 1617
Alfonso era un mercante, nato a Segovia, in Spagna, nel 1533. Si era sposato e aveva avuto due figli ma fu sconvolto dalla perdita della moglie e dei beni. A 35 anni tornò a scuola, proseguendo faticosamente gli studi interrotti in gioventù. Si presentò, quasi vecchio, come novizio in un convento della Compagnia di Gesù. Venne accolto, ma volle restare fratello coadiutore, addetto al servizio materiale della comunità. Divenne così portinaio nel convento dell'isola di Maiorca, da dove passavano i missionari diretti in America. Per tutti l'incontro con il santo portinaio era un'esperienza illuminante e a volte decisiva, come nel caso di san Pietro Claver, l'«apostolo degli schiavi». I suoi scritti furono raccolti dopo la morte, avvenuta il 31 ottobre del 1617. (Avvenire)
Etimologia: Alfonso = valoroso e nobile, dal gotico
Martirologio Romano: Nell’isola di Palma di Maiorca, sant’Alfonso Rodríguez, che, perduti la moglie, i figli e tutti i suoi beni, fu accolto come religioso nella Compagnia di Gesù, dove svolse per molti anni la mansione di portinaio nel Collegio, divenendo un esempio di umiltà, obbedienza e costanza nel sacrificio.
Alfonso Rodriguez che la Chiesa ci fa festeggiare il 31 ottobre, nacque in Spagna, a Segovia nel 1531. Morì nel 1617, a Palma di Maiorca. E’ il patrono dei portieri e degli uscieri e patrono di Palma di Maiorca. Coltivò fin da giovane il desiderio di consacrarsi a Dio e di diventare sacerdote finché entrò nella Compagnia di Gesù in Spagna. Veniva da una famiglia di mercanti di lana e tessitori di stoffe ed era molto applicato allo studio che seguiva con profitto nel collegio dei gesuiti di Alcalà. A ventitré anni però, in seguito alla morte prematura del padre, Alfonso fu costretto a ritornare nella sua famiglia per dirigere la piccola impresa familiare ereditata dal padre. Gli affari però non andavano bene e non interessavano affatto il giovane Alfonso, che nel frattempo si era sposato e aveva avuto due bambini. Un’esperienza che gli procurò nuove sofferenze perché, pochi anni dopo, Alfonso perse drammaticamente anche la moglie. Un giorno Alfonso, provato dalle traversie della vita e dalla sofferenza, cedette tutti i suoi beni al fratello e si trasferì a Valencia, per entrare nuovamente nella Compagnia di Gesù.
I padri gesuiti lo accolsero e qualche anno dopo lo inviarono nel Collegio di Monte Sion di Palma di Maiorca dove Alfonso rimase per tutto il resto della sua vita. A Palma di Maiorca svolse, per oltre trent’anni, il compito di portinaio trovando in questa professione la pace dell’anima e anche la via che lo condusse alle vette della santità.
E come i custodi e gli uscieri vigilano sulle case e sui palazzi delle famiglie che vi abitano, così Alfonso Rodriguez vegliava sul Collegio e su quanti si affacciavano alla porta dei gesuiti in cerca di un aiuto, un consiglio, una preghiera. Per tutti aveva parole di incoraggiamento e di stimolo alla conversione del cuore e all’amore fraterno.
Uomo semplice e umile, straordinariamente servizievole, tanto rigido con se stesso quanto caritatevole con gli altri, trovò nel suo ufficio quotidiano l’occasione opportuna per esercitare un apostolato continuo ed efficace. A rendere più efficace il suo apostolato contribuivano anche i numerosi carismi dei quali il Signore lo aveva dotato, primo fra tutti quello delle visioni e poi della preveggenza e dei miracoli.
All’umile portinaio Dio aveva anche donato una intensa esperienza mistica che contribuì a svolgere con profitto, insieme a quello di portinaio, il compito anche di padre spirituale dei novizi che si rivolgevano a lui con sempre maggiore frequenza per essere illuminati sulle vie di Dio.
Tra i novizi ci fu anche Pietro Claver, il santo apostolo delle Indie che tanto stimava Alfonso Rodriguez per la sua santità, e al quale lo stesso Alfonso profetizzò la sua futura missione. Grande era la devozione che Alfonso nutriva per la Santissima Vergine che pregava soprattutto con il Rosario; grazie all’intercessione della Madre di Dio, infatti, si compirono eventi straordinari.
Ha scritto diversi insegnamenti di carattere ascetico e mistico tra i quali le famose “Memorie” redatte per ordine dei suoi superiori, splendida manifestazione della santità e della sapienza interiore di una creatura straordinariamente plasmata da Dio. Il santo portinaio gesuita aveva una particolare riverenza per il suo angelo custode e ogni giorno, mattina e sera, sia nell’alzarsi da letto che nel coricarsi si raccomandava sempre alla celeste protezione che talvolta sperimentò in un modo anche sensibile.
Una sera fratel Alfonso con la mente rivolta a Dio, come era suo costume abituale, stava salendo per una scala interna del convento, quando da una finestra che dava nel cortile della cisterna sentì emanare un alito pestifero. Era il demonio che in tal modo voleva soffocarlo. Il santo gesuita svenne e sarebbe caduto per tutte le scale se non fosse stato materialmente sorretto dal suo angelo custode che immediatamente purificò l’aria e lo accompagnò sano e salvo nella sua stanza.
Fratel Rodriguez ricavò da questo episodio uno scritto che poi fu stampato postumo insieme ad altri suoi documenti, in cui dichiarava quale effetto nefasto produca nell’anima il peccato.
Così scrisse: “siccome quando taluno di repente venisse sorpreso da un soffio di aria pestilenziale, questa potrebbe con tal violenza colpirlo, da soffocargli in un momento tutta la virtù naturale, e la vita, opprimendolo ed uccidendolo subito, così l’anima perdendo l’amicizia e grazia di Dio viene infetta da quella corruzione pestifera e mortale del peccato, colla quale resta subitamente senza vita e spirito, e sepolta in eterna morte”.
Autore: Don Marcello Stanzione